La mossa storica del Papa sulla pedofilia che si trasformerà in una gigantesca Spotlight
Francesco abolisce il segreto pontificio per i casi di abuso su minori, di violenza sessuale e di pedopornografia. Così, però, offre un’arma di potenza incommensurabile a chi non attende altro che esporre la chiesa al pubblico ludibrio
Roma. E’ indubbio che la decisione del Papa di abolire il segreto pontificio per i casi di abuso su minori, di violenza sessuale e di pedopornografia sia storica, e ha ragione a definirla tale il direttore editoriale vaticano, Andrea Tornielli, in un commento apparso nel primo pomeriggio sui media d’oltretevere. Il rescritto firmato da Francesco è chiaro nella sostanza ed è la conseguenza ovvia del vertice dello scorso febbraio, quando convennero a Roma vescovi ed esperti per un collettivo mea culpa sulle responsabilità della chiesa – o meglio, di suoi ministri – in relazione agli abusi e alle relative coperture.
D’ora in poi, ha stabilito il Pontefice, le denunce, le testimonianze e i documenti processuali conservati negli archivi degli uffici vaticani e in quelli diocesani, fino a oggi sottoposti al segreto pontificio, potranno essere richiesti e consegnati ai magistrati che li richiedessero. E’ certamente un “segno d’apertura, di disponibilità, di trasparenza, di collaborazione con le autorità civili”, come ha sottolineato ancora Tornielli. Ed è ovvio (e giusto) che i colpevoli siano adeguatamente puniti.
Il problema però è un altro, e non è certo la voglia di fare pulizia o di elevare a dogma la trasparenza, come si legge in commenti e analisi dai toni trionfanti. Siccome il mondo non è fatto solo di buoni samaritani o gentiluomini d’indubbia rettitudine – in Vaticano, stando alle inchieste delle ultime settimane e alle porte quantomai girevoli negli uffici lì collocati, dovrebbero saperne qualcosa – è facile prevedere che la mossa del Papa si tradurrà in un’arma di potenza incommensurabile data comodamente in mano a chi non attende altro che esporre la chiesa al pubblico ludibrio, mettendo – carte alla mano – sul banco degli imputati preti, vescovi e cardinali. Senza magari niente di concreto, ma sempre in nome della “trasparenza”.
Prede offerte ai Gran giurì d’America che, come s’è visto la scorsa estate nel caso della Pennsylvania, non attendevano altro: conferenze stampa di pochi minuti in cui s’annuncia la gogna per duecento, trecento preti. E pazienza se l’inchiesta, come rivelò chi il rapporto se l’era letto tutto e per davvero (1.356 pagine), come il liberal Peter Steinfels, l’aveva definito “inaccurato, ingiusto e irresponsabile”. O come accaduto in Australia, dove (caso Pell a parte), un vescovo, quello di Adelaide, fu costretto alle dimissioni perché imputato di cose che mai aveva fatto, come ha stabilito alla fine, la giustizia. Ma il danno era fatto. Una gigantesca Spotlight, insomma, che avrà il solo scopo di processare la chiesa come istituzione e non tanto (e non solo) i suoi ministri ordinati. La scelta del Papa di aprire gli archivi e i cassetti alla giustizia laica ha l’eco d’una campana a morto, il segno d’una resa al mondo che aveva già fatto sentire l’antifona lo scorso inverno, quando una folla protestava ed esprimeva davanti alle telecamere “delusione” per quel poco che veniva concesso, mentre in Vaticano andava in scena il mea culpa collettivo.
Il rescritto papale non intacca, come è ovvio, il sigillo sacramentale: la confessione è sacra e non sono ammesse aperture in tal senso, benché diverse magistrature abbiano già messo in dubbio tale “privilegio” (ancora, in Australia). A tutela di tutti, poi, si ribadisce che la documentazione non dovrà essere pubblicata o divulgata. Il che, nel mondo dove tutto diventa leak per media bramosi di sensazionalismo, appare un’ironica sottolineatura. Soprattutto se si pensa che non più tardi di sette anni fa un pontificato è stato destabilizzato e debilitato proprio dalle manine che dal secrétaire papale sottraevano e diffondevano carteggi e documenti riservati.