Obbligo di firma per Benedetto XVI
Il brutto pasticcio vaticano ha messo in ombra l’unica cosa chiara e certa della vicenda: il testo di Ratzinger
Roma. Monsignor Georg Gänswein fa sapere che il Papa emerito non ha mai “approvato alcun progetto per un libro a doppia firma né aveva visto e autorizzato la copertina”. Sapeva però che il cardinale Robert Sarah stava scrivendo
Benedetto XVI ha scritto che “il sacerdozio di Cristo ci fa entrare in una vita che consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. Per i sacerdoti ciò è il fondamento della necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali”. Quanto ai sacerdoti dei primi secoli, che potevano sposarsi – tesi addotta da chi argomenta che dopotutto nell’antichità le cose erano diverse – il Papa emerito osserva che “i sacerdoti sposati potevano ricevere il sacramento dell’ordine se si fossero impegnati all’astinenza sessuale, dunque a contrarre il cosiddetto ‘matrimonio di san Giuseppe’”. Non pare, insomma, una tesi in linea con le perorazioni del vescovo amazzonico (ma tedesco d’origine) Erwin Kräutler che invoca la rivoluzione per portare mariti e mogli sugli altari né con quelle più d’establishment del cardinale Cláudio Hummes, che pure è favorevole alla svolta che viene data per imminente con l’esortazione post sinodale che il Papa s’accinge a promulgare. Dopotutto, ricorda ancora Benedetto XVI, “il vero fondamento della vita del sacerdote, il sale della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. Il celibato, che vale per i vescovi in tutta la chiesa orientale e occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i preti in generale nella chiesa latina, non può essere compreso e vissuto in definitiva che su questo fondamento”. Ancora, la “obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la chiesa, un pensare e parlare con la chiesa, un servire con essa”. E’ su questo che sarebbe opportuno discutere, più che di firme, copertine e numero delle pagine di un volume scritto per buona parte prima che l’assise amazzonica prendesse il via, benché il cosiddetto “Sinodo dei media” e pure di qualche vescovo interessato più a sdoganare certi tabù che al destino delle tribù fluviali, avessero già fatto capire che non di sole foreste si sarebbe discusso. Peccato che per quarantott’ore si sia parlato di tutto tranne che dell’elemento centrale, quel che Ratzinger ha scritto. A contare è stata la forma – una firma, un imprimatur, una copertina – e non la sostanza, cioè il sacerdozio e la crisi di fede che lo mina nella sua essenza. Un’occasione persa, peccato.