Il futuro inquieto dei cattolici
Il Figaro ha raccolto le analisi di alcuni esperti all’alba di un anno decisivo per la chiesa francese, che ha bisogno di ritrovare la fiducia dei suoi fedeli
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Annus horribilis, il 2019. Nel giorno di Natale, il cattolicesimo francese osa appena alzare la testa, dopo uno degli anni più difficili che questa confessione abbia vissuto da diversi decenni a questa parte. Il peso degli scandali sessuali nella chiesa, simboleggiato dal processo del cardinale Barbarin (il primate delle Gallie e arcivescovo di Lione è stato condannato a marzo 2019 per aver coperto gli abusi sessuali commessi da padre Preynat tra gli anni Settanta e Ottanta, ndr), e il dolore dell’incendio di Notre-Dame formano un conto molto salato. Certo, la catastrofe parigina ha dato luogo a un fervore popolare inatteso: senza essere “cattolica”, questa comunione di sentimenti sembrava attingere a una memoria religiosa repressa che si è risvegliata in maniera improvvisa. Questa luce rivelatrice della permanenza di una realtà cristiana in Francia è portatrice di un futuro roseo per il cattolicesimo o è l’espressione di uno dei suoi ultimi fuochi? Con l’arrivo dell’anno 2020, decisivo da molti punti di vista per i cattolici, il Figaro, in un articolo curato da Jean-Marie Guénois, ha rivolto questa domanda ad alcuni osservatori specializzati, non religiosi, che in gran parte hanno scritto su questo tema nel 2019.
Thibaud Collin non nasconde la sua fede cattolica, ma questo professore di filosofia e saggista resta prudente: “L’incendio di Notre-Dame ha provocato un effetto di saturazione sui francesi, ma non ne trarrei alcuna conclusione sul ritorno della fede cristiana in Francia. Piuttosto, ciò conferma a mio avviso la ‘patrimonializzazione’ del cattolicesimo francese, che è l’esatto contrario della sua vitalità, anche se può essere una pietra miliare per la nuova evangelizzazione. La scristianizzazione continua in maniera inesorabile, in ragione, principalmente, della rottura della trasmissione”.
Il sociologo Yann Raison du Cleuziou (“Une contre-révolution catholique”, Seuil) conosce bene la chiesa cattolica e condivide la stessa analisi: “Paradossalmente, l’incendio di Notre-Dame ha dato una consolazione ai cattolici, perché hanno avuto la sensazione di abbandonare il banco degli accusati per ritrovare la loro centralità nel cuore della nazione. Per un breve momento, il loro divenire minoritari è svanito dietro il patrimonio cristiano che appartiene a tutti i francesi. Ma il lutto nazionale attorno a Notre-Dame è un segnale equivoco che non deve ingannarci. Il cattolicesimo è sempre più patrimonializzato e associato al passato”. E precisa: “Il declino del cattolicesimo è un fatto statistico che nessuno per ora smentisce”, con una pratica settimanale “nell’ordine dell’1,8 per cento dei francesi”.
Diversi sociologi molto rinomati e più distanti dalle sfere cattoliche sono d’accordo con questa valutazione. Tra questi, Jérôme Fourquet, autore di un saggio che ha fatto molto parlare di sé nel 2019, “L’Archipel français”: “Secondo l’Ifop, quasi il 70 per cento dei nostri concittadini si è detto ferito dal dramma di Notre-Dame de Paris. Questa commozione indica la persistenza delle radici cristiane nella nostra società. Ma se è vero che le radici cristiane sono ancora presenti, è vero anche che c’è sempre meno linfa a irrigare il tronco del cattolicesimo. E’ quello che io chiamo la dislocazione terminale della matrice cattolica. Il numero dei battezzati è in netto calo. Il substrato antropologico del cattolicesimo si sta ormai sgretolando”.
Il sociologo Olivier Roy (“L’Europe est-elle chrétienne”, Seuil) va addirittura più lontano nell’analisi: “Il dramma di Notre-Dame ha portato a una patrimonializzazione culturale della cattedrale a discapito della sua funzione cultuale. Lo stato e la società valorizzano ciò che è puramente culturale nel cristianesimo, a detrimento della fede e dei valori, il che equivale a secolarizzare ciò che resta del cristianesimo nella nostra società”. Il demografo Hervé Le Bras conclude: “Mi domando se il crollo della navata di Notre-Dame non sia in realtà la materializzazione simbolica dei molti fallimenti spirituali della chiesa, piuttosto che un segno di rinnovamento”. E lo storico Denis Pelletier, che ha appena pubblicato “Les Catholiques en France de 1789 à nos jours” (Albin Michel), osserva: “Nonostante sia diventato minoritario, il cattolicesimo rimane un oggetto degno di rispetto all’interno della società francese. Ma per suscitare il rispetto, la chiesa a sua volta deve essere rispettabile, ossia rispettare gli individui, le leggi, la morale comune. Questa esigenza si esprime nell’emozione, non meno viva di quella che ha prodotto l’incendio di Notre-Dame, suscitata nel senso opposto dalla rivelazione delle violenze sessuali in seno alla chiesa, e soprattutto dal silenzio che le ha coperte per molto tempo, a detrimento del rispetto dovuto alle vittime”.
Cosa resta da fare, dunque, per il futuro del cattolicesimo in Francia dopo queste constatazioni? Denis Moreau, professore di filosofia, insegnante all’università di Nantes e cristiano (“Nul n’est prophète en son pays”, Seuil) invoca la pazienza. “La distruzione di un’anima è molto più grave della distruzione di una chiesa, anche se quest’ultima è splendida”, dice Moreau. Quest’ultimo non vede in che modo gli scandali sessuali “potrebbero contribuire a un rinnovamento a breve termine del cattolicesimo, che ha perso la sua credibilità morale in queste affaires”. E osserva: “Da una prospettiva soprannaturale e metafisica, voglio continuare a essere animato dalla virtù della speranza e credere che la chiesa uscirà purificata da questo periodo. Ma temo sia necessario molto tempo per riuscirvi. Penso che sarò ancora vivo quando la ricostruzione di Notre-Dame sarà terminata, e ciò mi rende felice. Ma sono i miei discendenti che conosceranno un’eventuale primavera della chiesa di Francia, dopo questo rigidissimo inverno”.
Jean-Louis Schlegel, editore e amministratore della rivista Esprit, condivide questa distinzione tra “l’incidente” di Notre-Dame e “la crisi della chiesa”. La crisi è un “evento strutturale di lungo corso” ed è “assai difficile intravedervi qualcosa di positivo, oltre a dire che fa passare la chiesa attraverso la prova della Croce, per resuscitare in una nuova vita”. Per Schlegel, dunque, resta ancora tutto da fare, ma a una condizione: trarre le lezioni da ciò che è accaduto, perché “la perdita della fiducia dei cattolici nella loro chiesa e quelli che la dirigono è un fatto senza precedenti dai tempi della Rivoluzione francese”. Realista, ma non pessimista, lo storico Guillaume Cuchet (“Comment notre monde a cessé d’être chrétien”, Seuil) riconosce il “declino” del cattolicesimo, ma cambia la prospettiva, perché “il 50 per cento dei francesi si considera ancora cattolico”. Rifiuta dunque l’idea di una “crisi terminale”, evocata da Jérôme Fourquet. “Il cattolicesimo rimane la prima religione di Francia. L’emozione suscitata dall’incendio di Notre-Dame non era puramente patrimoniale. C’è necessariamente qualcosa, nascosto nella coscienza ‘patrimoniale’ dei francesi, una specie di inconscio spirituale e teologico che fatica certo a ritrovare il filo della propria storia, ma esiste”. Da qui, la seguente visione del futuro: “Non mi sembra che ci siano ragioni per disperarsi. Nella storia, diceva Jacques Bainville, tutte le cose sono andate sempre molto male. Soprattutto nella storia della chiesa!”. Non bisogna “sottovalutare la gravità della crisi”, ma “se si va in profondità, si osserva che la chiesa ha una vera e propria storia di uomini e di donne libere, il cui futuro non è scritto, e che a ogni generazione hanno saputo assumersi le proprie responsabilità”.
Nulla è deciso, conferma il saggista Patrick Kéchichian, autore dell’apprezzato “Petit éloge du catholicisme”: non bisogna “omettere nulla” degli scandali sessuali e “accettare che si faccia chiarezza, costi quel che costi”, ma “dopo che questi fatti e queste pratiche saranno analizzati, denunciati e corretti, l’interiorizzazione è indispensabile. E’ una necessità, un’urgenza anche per l’uomo di fede, molto di più – o in altro modo – che per l’istituzione”. Perché “l’interiorizzazione”? “Perché la chiesa, prima di essere un’istituzione, è nella sua essenza la comunità dei fedeli. Il principale fine del cristiano, del cattolico, non è difendere questa istituzione, ma riaffermare, anche con accenti tragici, la sua piena appartenenza, totale e indissolubile, alla chiesa invisibile, ‘una, santa, cattolica e apostolica’, evitando ‘due grandi derive’: la rassegnazione e la disperazione”. E conclude: “L’incendio di Notre-Dame di Parigi è un terribile segno. Ma il segno di cosa? Dell’infinita fragilità che è propria dell’uomo, costruttore di cattedrali e semplice fedele”. E’ per questo motivo che “la nostra preghiera si rivolge verso il cielo, ammissione della nostra vertiginosa debolezza e della nostra indefettibile speranza”. Ma la speranza, spiega il filosofo Philippe Capelle-Dumont, presidente dell’Académie catholique de France, “non ha a molto a che vedere con le stime, gli ottimismi e le speranze dell’immaginazione febbrile che esorcizza le paure”. Al contrario, “la speranza si accasa nella potenza tenace e costruttiva di fronte al dolore della distruzione”. Quella di una cattedrale o quelle degli scandali. Insomma, “la chiesa cattolica vive un momento globalmente tragico e allo stesso tempo timidamente salutare”.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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