I pochi presenti alla messa della domenica delle Palme celebrata dal Papa all’altare della Cattedra, nella basilica di San Pietro (foto LaPresse)

Oltre la messa in streaming

Matteo Matzuzzi e Piero Vietti

La comunione è un bene necessario? Perché è giusto discutere di come e quando si potrà tornare in chiesa, evitando rischi e strumentalizzazioni. Girotondo di opinioni

Roma. Come sempre succede quando Matteo Salvini dice qualcosa su qualunque tema, per due giorni si è discusso della richiesta dell’ex ministro dell’Interno di permettere la partecipazione dei fedeli alla messa di Pasqua. La notizia rimbalzata ovunque era quella di un irresponsabile invito del leader leghista ad “aprire le chiese”, affidarsi al buon Dio invece che alla scienza e a sottovalutare i nuovi contagi che una scelta del genere causerebbe. La questione in realtà è più complessa sia delle semplificazioni da social network e giornali online sia delle strumentalizzazioni di Salvini. Il quale Salvini peraltro riprendeva una lettera aperta ai vescovi italiani del poeta Davide Rondoni pubblicata sul sito del mensile Tempi. Una “supplica che è anche grido” di un cattolico che chiede: “Ma non è possibile davvero organizzarsi con molti turni di messe per poche persone? Chiese che sono sempre semivuote non strariperanno… Lo si sta facendo per le opere di carità, non si può farlo per la liturgia di Pasqua? Con mail di prenotazione o altro? Con accorgimenti che qualunque fedele accetterebbe pur di baciare, mangiare quel Corpo amatissimo e divino, Corpo risorto mentre tutto parla di corpi morti?”. Domande lecite, in un momento in cui tanti si chiedono se, come e quando riaprire le fabbriche, gli uffici e le scuole. Ma se molti giustamente discutono, con pro e contro, di riaperture delle attività lavorative, chiedere di potere tornare a messa – a certe condizioni, non subito – sembra inconcepibile, comunque meno necessario di avere la possibilità di mettersi in coda alla gastronomia sotto casa per comprare la colomba pasquale. “Immaginare come poter svolgere alcune attività non deve essere un argomento tabù – ha scritto ieri il direttore di Tempi, Emanuele Boffi, andando oltre le reazioni alla lettera di Rondoni – L’inazione non è una risposta né sul piano materiale né su quello spirituale. Finora si è insistito molto su ciò che ‘non si può fare’; forse è il caso adesso di iniziare a chiedersi invece ‘cosa’ e ‘come’ si può fare. E’un problema che riguarda le chiese e le fabbriche, preti e operai, vescovi e mangiapreti: continuare a dire ‘no’ a tutto, non provare nemmeno a immaginare soluzioni – le più possibili condivise, con tutti gli accorgimenti sanitari immaginabili – è così balzano?”. Certamente non a Pasqua, dato che mancano cinque giorni e organizzare celebrazioni aperte anche solo per alcuni è ormai impossibile, forse neppure per le prossime domeniche ma, dice Boffi al Foglio, “bisogna cominciare a interrogarsi su come fare a riaprire anche le celebrazioni ai fedeli prima o poi. Magari si capirà che è complicato, o troppo rischioso, e non si farà, ma occorre cambiare paradigma, farsi venire delle idee”. E risolverla dicendo, come ha fatto Fiorello, che si può pregare anche in bagno magari fa ridere ma “è un po’ luterano”, non basta. Per il deputato di Italia Viva Gabriele Toccafondi, bisogna che la politica su questo tema si muova “con cautela, senza strumentalizzare guardando ai sondaggi. Non si può giocare con una mancanza che anche io da cattolico sento, quella della partecipazione all’eucarestia, non tenendo conto dei quindicimila morti per Covid-19 e dei rischi che riaprire le chiese adesso comporterebbe. Non c’è una soluzione in tasca, si riaprirà con nuove regole quando le autorità civili e religiose lo riterranno opportuno”. Le chiese non sono stadi o palestre, però. “E’ vero, non parliamo di una superstizione ma di un bisogno profondo dell’uomo. E’ giusto discuterne, ma non strumentalizziamo un tema così importante con sparate irrealistiche, anche perché il rischio è quello di ottenere proprio l’effetto contrario”. “Il problema della riapertura si porrà”, dice al Foglio mons. Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia-San Remo. 

 

 

“Ma in questa fase stiamo dando attenzione a due aspetti che a noi vescovi sembrano davvero importanti e impellenti: far sentire tutta la vicinanza umana da un lato, e spirituale dall’altro, al nostro popolo. Vicinanza umana significa che deve essa deve essere espressa in termini di solidarietà, condividendo la sofferenza, la fatica, l’angoscia della paura e per quanto possibile promuovendo i gesti di sostegno materiale che oggi sono ancora più necessari. Per quanto riguarda la solidarietà spirituale, intendo che bisogna tener vivo nel cuore della nostra gente, dei credenti ma anche di quanti si stanno interrogando rispetto alla situazione che stiamo vivendo, il respiro della preghiera. E cioè tenere vivo un riferimento a Dio che è fatto di confidenza, di fiducia e di implorazione, ma che è anche alimentato dall’ascolto della sua Parola che deve condurre al discernimento spirituale, ovvero alla lettura della Parola di Dio alla luce della vicenda personale e comunitaria che stiamo vivendo. Naturalmente – dice mons. Suetta – siamo tutti attenti a non far mancare il conforto della fede ai morenti”. Dopotutto il Papa l’ha detto in una delle prime messe a Santa Marta trasmesse in tv, ormai quasi un mese fa: i preti devono uscire, andare dai malati, a dare loro il conforto. Anche quello dei sacramenti. Non è tempo per i don Abbondio, insomma. “Il decreto della Penitenzieria apostolica è molto chiaro, si deve fare il possibile per raggiungere – nei limiti e con le precauzioni previste – chi soffre. Anche negli ospedali, in forma straordinaria, laddove è possibile, si deve portare la comunione ai malati”. Però manca la messa. “Intanto ribadiamo che le messe non sono sospese. Sono sospese quelle con la partecipazione del popolo, ma i sacerdoti le celebrano quotidianamente. La messa, ed è importante ribadirlo, non è mai un fatto puramente privato, ristretto e circoscritto a coloro che sono fisicamente presenti. E’ un atto che rende presente e operante tutta la chiesa di Cristo. Il mistero della comunione dei santi nella celebrazione eucaristica risplende e trova la sua massima efficacia. I fedeli – dice il vescovo di Ventimiglia-San Remo – sanno che sono partecipi di quell’atto liturgico che ogni sacerdote compie quotidianamente”. Intanto ci sono le messe diffuse in streaming, “che però non sono sostitutive delle ‘altre’ messe. Sono un mezzo bello per santificare la nostra giornata quando siamo impossibilitati a prendere parte alla celebrazione dell’eucaristia. Ma non è la trasmissione della messa che rende partecipi del mistero della messa, perché questo è un qualcosa che va al di là di ogni contatto sensibile, che si realizza a livello soprannaturale. Non voglio sottovalutare tutti questi sforzi tecnologici che si fanno per far sentire una vicinanza più sensibile alle persone. Questi sono atti molto encomiabili, soprattutto quando si tratta delle messe celebrate dal Santo Padre. La ricchezza più invisibile ma più profonda è che in ogni angolo del mondo si celebra la messa, continuamente”. Prima o poi, comunque, il problema della riapertura si porrà. Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, non fece mistero di qualche perplessità, all’inizio dell’epidemia, sulla differenza stabilita a livello politico tra i ristoranti (aperti) e le chiese (interdette ai fedeli per la messa). Poi i numeri del contagio e dei morti hanno convinto tutti che la rinuncia alla partecipazione eucaristica fosse un male da sopportare in questa lunga quaresima. Ma dopo che accadrà? “Non saprei immaginare il modo in cui si concretizzerà il ritorno alla vita sociale, con quali modalità e scansioni temporali. Anche perché non è il mio mestiere. Per quanto mi riguarda, come vescovo – dice mons. Suetta – credo che non appena si potrà le messe con il popolo saranno immediatamente ristabilite. Naturalmente saranno studiate misure di prevenzione, penso ad esempio al mantenimento delle distanze, a un contingentamento delle presenze. Magari incrementando il numero delle messe festive e dividendo la popolazione in gruppi, magari in ordine alfabetico o per zone di residenza. Non credo che il contingentamento sia un problema, di certo non lo è nei piccoli centri. Forse lo è nelle città, ma è sufficiente essere un po’ creativi. E’ necessario pensarci, perché questo è quanto corrisponde al desiderio e alle necessità spirituali dei nostri fedeli. Penso però che questo cammino di ripresa andrà accompagnato da un’adeguata catechesi. Dopotutto, nella logica sapienziale delle cose, tante situazioni che in loro stesse sono pericolose e negative possono dare origine a situazioni che offrono spunti per un rinnovamento della vita comunitaria a tutti i livelli, ovviamente non senza sforzo e sofferenza. E’ necessario, come ha detto anche il Santo Padre, impegnarsi con la solidarietà e la creatività. Allo stesso tempo dobbiamo riflettere sul senso delle cose: forse, la costrizione a stare lontani da quelli che per noi sono i riferimenti più cari – come è la messa, ad esempio – ci deve indurre a gustarli di più e a viverli, quando sarà possibile, con più partecipazione. A volte diamo le cose per scontate, e quindi non attribuiamo a esse il giusto valore. E’ l’occasione per riscoprire una serie di legami e atteggiamenti che sono diventati abitudini e che in realtà non lo erano”.

 

Certo, la chiusura prolungata delle chiese ai fedeli pone problemi non di poco conto, soprattutto sulle conseguenze che si potrebbero avere. “Ho riflettuto sul tema della chiusura esaminando qualche precedente storico”, dice al Foglio il professor Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni). “Le chiese furono chiuse per diversi anni durante la Rivoluzione francese. I vescovi le chiusero in Messico nel 1926 per protesta contro le misure anticlericali di Calles, e rimasero chiuse durante la guerra civile dei Cristeros fra il 1926 e il 1929. Furono chiuse in Albania durante lo ‘stato ateo’ di Enver Hoxha. Tranne alcune ‘cosmetiche’ da mostrare agli stranieri in visita, sono tuttora chiuse in Corea del nord. Lo studio di questi precedenti dice a me (e dovrebbe dire ad altri) due cose. La prima è che, come storici della Rivoluzione francese hanno notato, la retorica secondo cui la persecuzione è seme di nuovi cristiani è vera in casi individuali ma non lo è, almeno nell’èra moderna, sul piano statistico. Dopo la Rivoluzione, ci dicono questi storici, quando le chiese si sono riaperte, la pratica cattolica ha ripreso con numeri molto più bassi di quelli che verosimilmente aveva prima. C’è persino chi sostiene che, nelle zone della Francia dove la chiusura delle chiese è stata più rigida nel periodo rivoluzionario, la pratica religiosa è rimasta più bassa fino ai nostri giorni. Ci sono osservazioni simili su Messico e Albania. Ne consegue che dopo un periodo di chiusura delle chiese il ritorno non è automatico. La seconda osservazione – aggiunge Introvigne – è che nei casi che ho citato (compresa la Corea del nord – prima della Guerra di Corea Pyongyang aveva una tale fioritura di chiese cristiane da essere chiamata ‘la Gerusalemme coreana’) il virus della chiusura delle chiese attaccava un corpo sano e una chiesa fiorente. Oggi attacca una chiesa indebolita e un corpo già malato, con poche eccezioni. Se parliamo di Italia, Francia, Spagna, Belgio, la pratica religiosa è già molto bassa (da noi, circa il 17 per cento secondo diverse inchieste recenti che cercano di misurare la pratica reale, cosa diversa da quanti si dichiarano praticanti se intervistati dall’Istat)”. Ma la situazione non è ora diversa? “Certo, c’è anche la differenza fra una chiusura dovuta alla persecuzione e una dovuta a un virus. Ma non sono sicuro che questo vada a vantaggio della chiesa, mentre potrebbe essere favorevole la circostanza di una chiusura più breve rispetto a quelle pluriennali che ho citato. Però rimane il dato storico che, quando la gente si disabitua ad andare in chiesa, c’è una percentuale, non insignificante, che poi non ci torna”.

 

Che cosa può fare la chiesa per evitare questo ulteriore, drammatico colpo a una frequenza alle cerimonie religiose in molti paesi già bassa? “Intanto non può violare le leggi. Lo fanno alcune chiese evangeliche negli Stati Uniti, però nonostante il fatto che gli evangelici siano un grande sostegno per Trump e che il governatore della Florida sia repubblicano, alla fine in Florida per dare un esempio uno dei più famosi predicatori evangelici del paese, Rodney Howard-Browne, è stato arrestato, a conferma che le autorità non guardano in faccia nessuno. E’ necessario che la chiesa sia più presente nell’offrire non solo messe in streaming ma una sua narrativa della crisi, con un’interpretazione e una speranza anche spirituale che un presidente della Repubblica non può dare (ci è andata più vicina la regina Elisabetta, anche se pure lei ha dovuto includere gli atei, ma una monarchia millenaria ha una mistica che la nostra Repubblica non può avere). All’inizio – osserva il direttore del Cesnur – avevo notato come, a differenza di quanto era avvenuto nelle altre grandi crisi della storia italiana, anche recente, la chiesa fosse piuttosto assente. Qualche vescovo diceva la sua ma non finiva sulle prime pagine. Che cosa significasse la crisi gli italiani se lo facevano spiegare da Conte o da Mattarella. Il Papa poi ha rimontato con la commovente preghiera nella piazza piovosa e deserta, e verosimilmente continuerà a Pasqua. E’ importante, ma alla lunga non basta. Le chiese dovranno essere, anche simbolicamente e anche se molti avranno paura ad andarci, riconosciute come ‘servizi pubblici’ importanti e riaprire quando riapriranno altri. E, nel rispetto del distanziamento sociale che imporrà cambiamenti a tanti altri, i vescovi dovranno inventarsi qualcosa per dare un segnale che mostri a tutti che la chiesa c’è. Penso per esempio a grandi cerimonie per rendere omaggio ai tanti defunti. Il rischio – chiosa Introvigne – è che questa chiusura porti a percentuali di partecipazione alla messa inferiori in Italia al 10 per cento, da cui poi come i sociologi sanno risalire è estremamente difficile”.

 

Premette il sociologo Luca Diotallevi: “Quando sarà possibile senza mettere a repentaglio altre vite torneremo a celebrare la messa, adesso cerchiamo di non trasformare lo schermo in un tabernacolo. Intanto, ricordiamo che ciò che salva è il dono che Gesù fa di sé e che lo Spirito, anche se tutta la faccia della terra si celebrasse una sola messa, continuerebbe ad associare ogni uomo e ogni donna al sacrificio redentore di Nostro Signore”. Detto ciò, a giudizio di Diotallevi “la domanda e l’offerta di sacro dovrebbe riguardare assai poco i cristiani. Non è strano che tale domanda cresca in tempi difficili, invece è triste che qualche cattolico la sfrutti. Se poi a farlo sono i ministri ordinati è davvero un guaio. Nella liturgia della messa cattolica il corpo è un protagonista: parla, ascolta, viene mangiato, bevuto e toccato. Perché di questo tipo è la verità che la chiesa ci ha sempre insegnato: da Paolo e Giovanni in avanti. Si può fare la spesa senza toccarsi, non si può partecipare alla messa senza toccarsi. Dunque: niente frenesie. Sottrarsi al ruolo di appestatori è un dovere cristiano di carità. ‘Misericordia voglio e non sacrifici’ (Mt 9, 13). Semmai il nostro dovere di credenti è chiederci il senso di questo tempo. Scriveva von Balthasar: ‘La storia strappa luce al Vangelo’. Quale brandello di luce del Vangelo possiamo comprendere oggi, proprio oggi, meglio che in altri momenti? Sarebbe un peccato sprecare questo tempo come è un peccato sprecare ogni tempo. Vivendo come atto di carità il distanziamento sociale, possiamo capire che Gesù ci sottrae alla spirale asfissiante del sacro. Il Vangelo non nega, ma discerne e purifica il religioso (come il politico e come tutto il resto). Distanziati da tre delle quattro forme di ‘presenza reale’ di Gesù Cristo nella liturgia, il pane e il vino trasformati in corpo e sangue di Nostro Signore, il prete che presiede, i fratelli e le sorelle in assemblea, siamo invitati a comprendere meglio che senza questi corpi non si dà eucarestia cattolica. Noi che per tanto tempo abbiamo messo su di un trono princìpi, dottrine, spiritualismi. Quel trono, Gesù lo ha lasciato agli stregoni. Senza corpi da riconoscere (la folla è un’altra negazione dei corpi umani) c’è solo spettacolo, non liturgia.

 

In queste condizioni, però, non siamo distanziati dalle Scritture, dalla Parola che esse contengono e che all’ascolto risuona nella nostra coscienza (norma prossima). Questo è, o meglio: potrebbe essere, un tempo di grazia in quanto invito potente di tornare ad ascoltare Parola delle Scritture. Non un invito ad assolutizzare l’ascolto perché, se c’è cristianesimo, è perché la Parola si è fatta carne, corpo. Un invito che comunica una doppia verità: senza Parola qualsiasi suppellettile e qualsiasi rito appartiene al mondo del sacro, non a quello del Vangelo e del santo; senza corpi che si avverano presso di noi la Parola non giunge a pienezza. (Cos’altro insegna Maria?)”. In questo frangente – sottolinea Luca Diotallevi – “il video manifesta tutta la sua ambiguità. Soccorre chi è impossibilitato a partecipare la messa e insidia illudendo che la visione sia presenza e – vertice dell’empietà – presenza religiosa che soppianta l’ascolto. Per malinteso zelo pastorale, per appagare il tarlo del narcisismo, ‘stregoni cattolici’ (in tonaca e non) minacciano un tempo di Grazia (terribile come spesso è la Grazia). Lo stesso noi credenti laici, se non sapremo tenere a bada una insana bulimia di religioso”.

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