Papa Francesco durante la celebrazione del Giovedì Santo (foto LaPresse)

La Croce tra le sbarre

Piero Vietti

Il corpo a corpo tra vita e morte nelle meditazioni del Venerdì Santo per il Papa scritte dal carcere di Padova

Roma. “In carcere la vera disperazione è sentire che nulla della tua vita ha più un senso: è l’apice della sofferenza, ti senti il più solo di tutti i solitari al mondo”. Non ci sono scorciatoie, nelle meditazioni che questa sera accompagneranno le quattordici stazioni della Via Crucis di Papa Francesco, lette sul sagrato vuoto della Basilica di San Pietro in questo Venerdì Santo in cui il mondo intero soffre la passione della pandemia. Non ci sono formule magiche né trucchi da prete, soluzioni bigotte o frasi fatte. C’è un grido straziante, solitudine, una domanda di significato senza sconti, c’è tutto il dolore del mondo per il male commesso, per la violenza subìta, per la fatica di accompagnare chi fino alla fine dei suoi giorni resterà in una cella per pagare i propri errori. C’è il mistero enorme che è l’uomo.

 

Quest’anno il Papa ha chiesto alla cappellania della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova di meditare sulla Passione. Aiutati dal cappellano del carcere, don Marco Pozza, e da una volontaria, Tatiana Mario, raccontano la loro storia dolorosa cinque detenuti, una famiglia vittima di un omicidio, la figlia di un condannato all’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di un detenuto, una catechista, un frate volontario, un agente di polizia penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto dopo otto anni di processo. Quattordici testi che sono quattordici immersioni nell’abisso di una umanità ferita e spesso dimenticata, e a cui nessuna risposta ordinaria può dare conforto. “Perché proprio a noi questo male che ci ha travolto? – si chiedono, alla seconda stazione, due genitori a cui hanno ucciso una figlia – Non troviamo pace. Neppure la giustizia, in cui abbiamo sempre creduto, è stata in grado di lenire le ferite più profonde: la nostra condanna alla sofferenza resterà fino alla fine”. “La condanna più feroce rimane quella della mia coscienza – dice un ergastolano nella prima stazione – di notte apro gli occhi e cerco disperatamente una luce che illumini la mia storia”. “Le ferite crescono con il passare dei giorni, togliendoci persino il respiro”, dice la madre di un detenuto. “Tante volte incontro uomini disperati che, nel buio della prigione, cercano un perché al male che sembra loro infinito”, racconta una catechista volontaria. “Anni fa ho perduto l’amore perché sono la figlia di un uomo detenuto, mia madre è caduta vittima della depressione, la famiglia è crollata”, si ascolta in un’altra meditazione.

 

Potrà tutto il grande oceano di Nettuno lavare questo sangue via dalle mie mani?”, si chiede Macbeth nella tragedia di Shakespeare, consapevole dei propri delitti. E’ anche la domanda sottintesa in ogni riga di questa Via Crucis, senza mai la pretesa di una risposta affermativa. Sono uomini e donne caduti, precipitati da se stessi o da altri in una notte senza stelle alla fine del mondo. “Ho vissuto anni sottoposto al regime restrittivo del 41 bis e mio padre è morto ristretto nella stessa condizione. Tante volte, di notte, l’ho sentito piangere in cella. Lo faceva di nascosto ma io me ne accorgevo. Eravamo entrambi nel buio profondo”, racconta un ergastolano. “Non mi ero accorto che il male, lentamente, cresceva dentro me. Finché, una sera, è scoccata la mia ora delle tenebre”, dice un altro detenuto. Più di uno racconta di avere pensato al suicidio, troppo grandi il dolore e la vergogna per quello che avevano fatto, l’assenza di un orizzonte o di un significato, o troppo grandi le accuse ingiuste ricevute, come nel caso del sacerdote processato per anni e poi assolto.

 

Sembrano i personaggi di un romanzo di Dostoevskij, ma sono reali: padri, madri, figli, assassini, vittime, traditori e innocenti feriti che possono raccontare questo dolore perché in carcere hanno incontrato chi ha saputo “riconoscere la persona nascosta dietro la colpa commessa”, come dice il magistrato di sorveglianza alla dodicesima stazione. “Sono queste le creature sospese che mi vengono affidate: degli uomini inermi, esasperati nella loro fragilità, spesso privi del necessario per comprendere il male commesso”, dice poco prima un’educatrice del carcere di Padova. Come ha ricordato su queste pagine qualche settimana fa il cardinale Angelo Scola, in Delitto e castigo il protagonista Raskolnikov arriva a sentire il perdono su di sé ed è pronto a ricominciare dopo che il rimorso gli ha fatto ammettere la propria colpa e l’amore e la fede di Sonja gli hanno fatto capire la necessità del castigo, il deserto del carcere da attraversare lontano da lei, fino alla “resa” di fronte all’evidenza del bene di quella ragazza che lo “recupera”. Da anni la Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova è un esempio virtuoso di come la collaborazione tra direzione del carcere, polizia penitenziaria, magistratura di sorveglianza, associazioni di volontariato e chiesa locale possano dare frutti che in altre strutture carcerarie sono impensabili, a partire da un tasso molto basso di recidiva: centinaia di volontari quotidianamente entrano nel carcere padovano scommettendo sulla rieducazione e il reinserimento sociale e puntando su istruzione, lavoro, arte, cultura e religione.

 

Parlando della crocifissione di Cristo, lo scrittore francese Charles Péguy dice: “Che era dunque l’uomo. Quell’uomo. Che era venuto a salvare. Del quale aveva rivestito la natura. Non lo sapeva. Come uomo non lo sapeva. Perché nessun uomo conosce l’uomo”. Dio stesso grida sulla Croce, scrive ancora Péguy, “un grido che risuonerà sempre, eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai, eternamente”. Perché quel grido? “Somiglio più a Barabba che a Cristo – dice l’ergastolano della prima stazione – Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo, scoppio nel pianto: dopo ventinove anni di galera non ho ancora perduto la capacità di piangere, di vergognarmi della mia storia passata, del male compiuto. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona. Il passato è qualcosa di cui provo ribrezzo, pur sapendo che è la mia storia”. Ma “il carcere è stato la mia salvezza. Se per qualcuno sono ancora Barabba, non mi arrabbio: avverto, nel cuore, che quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita”. Nell’esperienza di un grande amore, il corpo a corpo di ognuno con il dolore e la colpa è investito da una luce nuova. “Per quelli come noi la speranza è un obbligo”, dice la figlia del carcerato che da quasi trent’anni gira l’Italia “come Telemaco” per stare accanto al padre trasferito da un carcere all’altro. “A casa nostra è tutta una Via Crucis”. E allora ci si aggrappa anche a “un frammento di bene” che “è sempre rimasto acceso”. Un detenuto è diventato nonno mentre era in carcere. “Un giorno, alla mia nipotina, non racconterò il male che ho commesso ma solamente il bene che ho trovato. Le parlerò di chi, quando ero a terra, mi ha portato la misericordia di Dio”. E ancora: “Sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre”. Non c’è nessuna facile scappatoia, come dice il magistrato della dodicesima stazione “è necessario che l’uomo espii il male che ha commesso”, ma “non posso inchiodare un uomo, qualsiasi uomo, alla sua condanna: vorrebbe dire condannarlo una seconda volta”. Allora tutto cambia, se c’è chi salva e cancella il male commesso si può ricominciare: anche aprire o chiudere una cella può essere fatto con più umanità, dice l’agente di polizia penitenziaria nell’ultima stazione (“Ce la metto tutta per difendere la speranza di gente rassegnata a se stessa. In carcere ricordo loro che, con Dio, nessun peccato avrà mai l’ultima parola”); i genitori della ragazza uccisa adesso accolgono a casa loro le persone in difficoltà; l’assassino di una notte ringrazia perché “ha trovato gente che mi ha ridato la fiducia perduta”; un altro detenuto sogna “di tornare un giorno a fidarmi dell’uomo” e di aiutare altri a portare la loro croce, come è successo a lui.

 

Chi asciugherà tutte le nostre lacrime? chiedono a chi le ascolta le quattordici stazioni della Via Crucis di oggi. “Non si possono arginare le piene di cuori straziati”, risponde una delle meditazioni che risuoneranno stasera in piazza San Pietro. Ma “se qualcuno gli stringerà la mano, l’uomo che è stato capace del crimine più orrendo potrà essere il protagonista della risurrezione più inattesa”.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.