La Waterloo della Cei
La Nota rabbiosa dei vescovi contro il governo mette in luce la drammatica irrilevanza della chiesa italiana
Roma. Il comunicato diffuso dalla Conferenza episcopale italiana poco dopo le 21.30 di domenica rivela tutta la frustrazione per la porta in faccia ricevuta dal governo dopo settimane di negoziati con le autorità per stilare un protocollo che consentisse la ripresa delle messe celebrate alla presenza dei fedeli. Frustrazione mista a rabbia, perché una nota così repentina e dai toni così duri, non si vedeva da tempo. E’ il punto più basso dei rapporti tra il governo (qualunque governo) e le gerarchie della chiesa italiana da molto tempo. Neanche all’epoca del dibattito sui Dico la tensione era stata così alta, per di più pubblicamente dichiarata. Il passaggio finale del comunicato in cui si afferma che “i vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto” è un chiaro j’accuse a Palazzo Chigi, con tanto di monito esplicito: “Alla presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia”.
In un editoriale pubblicato domenica sera sul sito di Avvenire, il direttore Marco Tarquinio ha scritto che trattasi di “ferita incomprensibile e ingiustificabile”, di “scelta miope e ingiusta”. Le parole nervose messe per iscritto a caldo sanno tanto di tradimento subìto, anche se ora il premier Giuseppe Conte assicura che si farà il possibile – ed è probabile che una mediazione sarà trovata in tempi brevi – per riaprire presto in condizioni di massima e sicurezza con protocolli adeguati.
I vescovi confidavano che il confronto quotidiano con il governo e il silenzio su tutto ciò che intanto accadeva da nord a sud – compresi i Carabinieri sull’altare mentre un sacerdote celebrava messa – avrebbe portato alla tanto attesa svolta. Invece, il riserbo totale non ha pagato. Anzi: una data certa per la riapertura l’hanno ottenuta i centri estetici e i parrucchieri. Ma non le chiese. Qualcosa forse aveva intuito, giorni fa, il presidente Gualtiero Bassetti, che aveva parlato della necessità di tornare a celebrare con il popolo. Ma anche in questo caso, senza clamore. Niente a che vedere con i pugni sbattuti sul tavolo da altre categorie. La Conferenza episcopale italiana non s’aspettava l’umiliazione, per di più da un governo considerato amico e sostenuto fin dalla sua nascita. Dopo le critiche alla precedente esperienza gialloverde, con l’insofferenza per i rosari salviniani, le lodi al modello ungherese con i suoi muri e le sue reti antimigranti, l’alleanza tra il Movimento 5 stelle il Pd aveva ben disposto la Cei. E poi c’era sempre Giuseppe Conte, uomo apprezzato oltretevere, se non altro per per i suoi rassicuranti trascorsi a Villa Nazareth, già regno del cardinale Achille Silvestrini e cara all’attuale segretario di stato, Pietro Parolin.
Tutto era andato bene, tutto era stato fatto di concerto: anche la scelta di sospendere le celebrazioni coram populo era stata approvata dalle gerarchie episcopali. Era questione di buon senso: con gli ospedali allo stremo e i posti in terapia intensiva esauriti, non restava altro che tapparsi in casa ed evitare l’insorgere d’ogni possibile focolaio. Anche se qualcuno aveva mostrato qualche perplessità: “Debbo dire che all’inizio, quando erano aperti i ristoranti e vietate le celebrazioni, ho fatto molta fatica a comprendere la decisione del governo e mi sono posto molti interrogativi. C’è bisogno anche di Dio, oltre che di scienziati e medici”, aveva osservato il cardinale Matteo Zuppi. Il vescovo di Ascoli, mons. Giovanni D’Ercole, ha ribadito che “la libertà di culto non può essere bloccata. Si tratta, qualora non venga riconosciuto questo diritto, di agire secondo quanto ci insegnano gli Atti degli apostoli: dobbiamo obbedire di più a Dio o agli uomini? In questo caso, a Dio”. Il Centro Studi Livatino annuncia che presenterà ricorso al Tar contro il decreto per il persistente divieto di celebrare la messa. I professori universitari di Lettera 150 chiedono che le celebrazioni con il popolo siano immediatamente ristabilite, visto che è “qui in gioco non soltanto la libertà di culto, ma il principio della libertà dell’individuo”. Le due sponde del Tevere non sono mai state così distanti come ora.