Rosari, slogan, cortei. Lo scorso fine settimana, nella Francia bloccata dal lockdown autunnale, centinaia di cattolici sono scesi in strada ritrovandosi davanti ai portoni sbarrati delle chiese. Un’unica richiesta: poter tornare a partecipare a una messa. Ora non si può, dal 3 novembre il governo ha inserito anche le celebrazioni liturgiche nell’elenco delle attività vietate. Il primo ministro, Jean Castex, assicura che si farà il possibile per “una ripresa controllata dal 1° dicembre, sempre che le condizioni sanitarie lo consentano”. Il cardinale Matteo Maria Zuppi l’ha detto in un’intervista al Messaggero: “Un dolore se dovessimo rinunciare alle messe, spero nelle chiese aperte. Non sono gruppi Whatsapp”. Sente, l’arcivescovo di Bologna, che forse dopo le nuove chiusure e la divisione semaforica dell’Italia, tornerà in ballo la questione delle celebrazioni. Focolai, in chiesa, se ne sono visti pochi: tra distanziamenti che sovente superano i limiti normativi, igienizzazione da sala operatoria e abbondante uso di mascherine, non è certo lì, tra una navata e l’altra, che il virus ha ricominciato a correre. Eppure, in tempo di pandemia, non si fanno troppi distinguo.
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