Finito il calvario di Asia Bibi, la situazione per la minoranza cristiana non è migliorata. Tra accuse di blasfemia, matrimoni forzati e giudici compiacenti, la libertà religiosa resta un miraggio
Ora che la vicenda di Asia Bibi si è risolta per il meglio, dopo anni di inumane sofferenze, soprusi e violenze, dei cristiani perseguitati in Pakistan si parla molto meno. Quasi che le manifestazioni inneggianti all’impiccagione della madre di famiglia cristiana denunciata ingiustamente e sottoposta a un incredibile calvario giudiziario fossero un momento di raro teatro, conclusosi con l’esilio di Asia e della sua famiglia. Basterebbe chiedere ad Aneeqa A (così si deve far chiamare), avvocato pachistano che da tempo collabora con ADF International, organizzazione cristiana di patrocinio legale in prima linea per difendere la libertà religiosa ovunque nel mondo. “La gente è così disperata che è costretta a scambiare la religione professata in cambio di cibo. Le persone sono costrette a convertirsi all’islam solo per un sacco di farina”, ha detto. Ora che la crisi economica si è legata a quella sanitaria, tutte le diseguaglianze sociali risultano amplificate all’ennesima potenza. Un’ulteriore conferma è giunta pochi giorni fa, quando un tribunale di primo grado di Karachi ha liberato su cauzione il quarantaquattrenne Ali Azhar che, a ottobre, aveva organizzato il rapimento di una tredicenne cattolica per poi stuprarla e organizzare il matrimonio forzato. Liberi anche l’imam che aveva celebrato le nozze e i complici di Ali Azhar.
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