I segni di questa Pasqua

Chi ci libererà dal destino che pare aver fatalmente segnato l'occidente cristiano? Una possibilità c'è

Angelo Scola

Il nuovo dio con la minuscola oggi ci domina a tal punto che rischiamo di non saper più cogliere il mistero

Noi europei occidentali che finora della Terza guerra mondiale a pezzi avevamo sentito solo gli echi, ci siamo trovati in prima linea nella guerra globale contro un nemico micidiale e sconosciuto. E dopo un anno siamo ancora in pieno sotto l’attacco violento del virus a cui stiamo rispondendo con l’arma dei vaccini in una guerra male organizzata, in ordine sparso, divisi e seguendo logiche di accaparramento all’interno della stessa comunità europea

 

Quanto profetica l’enciclica Fratelli tutti che Papa Francesco ha dato al mondo quando la pandemia si stava appena affacciando… Il richiamo del Papa – con il suo magistero, certamente, ma soprattutto con l’esempio – alla solidarietà tra gli uomini è instancabile.

 

Il richiamo più imponente di questa Pasqua, così segnata dall’irrompere del dolore nella nostra vita, scaturisce dalla prova del Crocifisso. Gesù per spiegare il dolore e la morte non li ha “definiti”, ma li ha condivisi. Mai come quest’anno sentiamo vera l’identificazione Passio Christi, Passio hominis fatta da Benedetto XVI in occasione dell’ostensione della Sindone del 2010.

 

Immergerci oggi, con tutta la nostra umanità, nell’abisso di misericordia del Crocifisso Risorto genera speranza. Una speranza solidale perché sgorga dalla solidarietà del Figlio di Dio con l’uomo. Eppure spesso oggi molti di noi faticano a riconoscerLo, come duemila anni fa i due discepoli di Emmaus la cui vicenda è narrata nel vangelo di Luca. Percossi dalla trama straordinaria di episodi legati a Gesù di Nazareth ne discorriamo. Vi dedichiamo tempo ed  energia. Ne analizziamo ogni particolare. Ma a tema della riflessione o del dialogo ci sono più le reazioni che questi fatti hanno provocato in noi che l’evento in sé, con il suo oggettivo significato. Come i due, anche noi continuiamo, forse, a rielaborarne i dati. Ne parliamo con chi ci sta vicino. Forse anche la nostra fede è venata di delusione o smarrita come lo era la loro per il mancato lieto fine. Per di più noi, dopo una bimillenaria tradizione, non possiamo evitare di interrogarci sulle implicazioni della Sua morte e della Sua risurrezione circa il bene-essere della nostra persona e della società. Perché l’uomo non sembra migliore? Perché i legami primari – quelli tra uomo-donna, padri e figli, ad esempio – non sono divenuti più lineari? Dov’è la giustizia, dov’è la pace? Insomma, dov’è l’eco di quella salvezza promessa e duramente pagata dal corpo illividito del Crocifisso? 

 

Continuiamo a frequentare, con maggior o minor regolarità, le chiese, a celebrare l’Eucaristia e tuttavia, come i due che se ne tornavano sconsolati, “i nostri occhi restano incapaci di riconoscerLo”. Chiediamocelo con franchezza: Gesù Cristo, questo uomo singolare – cioè unico e irripetibile perché Figlio di Dio –, Gesù Cristo stesso, realtà vivente e personale, è veramente capace di convincere e mobilitare il nostro io? E’ presente a ciascuno di noi almeno tanto quanto lo è il nostro io a se stesso o lo è l’altro, che amiamo e che ci sta accanto? E’ vicino il mistero di Gesù alla mia persona, alla mia vita?

 

I due che tornano mesti, lasciando Gerusalemme – allora come oggi tormentato luogo di speranza universale – trascolorano ai nostri occhi e diventano la figura di ognuno di noi. Emblema dell’uomo contemporaneo, non più solo tenacemente attaccato, come quello moderno, alla propria soggettività, ma ormai tentato di post-cristianesimo. Il mistero non è più vicino, anzi è inesorabilmente passato. La tragica conclusione di Lessing: “E’ impossibile scavalcare il maledetto fossato che ci separa da Gesù di Nazareth”, pesa come un’ingombrante zavorra, sulla nostra fede meccanica e ne impedisce l’impeto generativo. Come si può, infatti, credere – cioè dare la propria vita – per seguire qualcuno che non sia presente qui e ora, che non sia contemporaneo? Già lo aveva visto Kierkegaard: si può andar dietro solo ad Uno che sia presente. 

 

“Noi speravamo…” dice Cleopa, uno dei due. Noi speravamo che quel profeta, potente in parole e opere davanti a Dio e a tutto il popolo, liberasse Israele. Noi speravamo… che, dopo l’incontro con Lui, il nostro io fiorisse, vincendo fragilità, morte e peccato. Ma non sembra essere così. Ed allora la distanza dal mistero vitale di Gesù dilaga in senso di delusione come una crepa su di un prezioso cristallo, che incomincia quasi impercettibile per poi rapidamente spezzarlo. Noi speravamo… che l’amore – che scaturì, quale purissima realizzazione del cuore umano, dal Suo corpo martoriato e dal Suo sangue versato – ci educasse almeno a vivere meglio il rapporto con chi ci sta vicino. Invece la Sua salvezza sembra, in noi e intorno a noi, inefficace. Anziché la dedizione disinteressata e la capacità di perdono spesso trionfa il meschino risentimento, fatto di ripicche e di ricatti. Anziché un amore che libera, sembra vincere un amore che lega.  Anche noi, come quei due, speravamo in una società non certo perfetta, ma almeno libera dalle più patenti ingiustizie, tesa a consentire nei suoi corpi intermedi, nelle sue istituzioni civili e statali, una convivenza degna di questo nome, in cui l’uomo potesse affrontare la quotidiana fatica dell’edificazione della vita buona, senza ingenue pretese di paradisi idilliaci, ma anche senza egoistici e violenti contrasti. Sognavamo la pace come possibilità di serena convivenza tra i popoli – cioè tra etnie, nazioni e culture variegate –, come fioritura di scambi tra uomini diversi, eppure uni nell’umana dignità di appartenenza alla stessa stirpe. Invece l’odio e la guerra, la miseria ingiusta, la volontà di potenza e il dominio del forte sul debole sembrano avere la meglio. Speravamo… e per questo, in fondo, come i due sulla via di Emmaus, anche noi ci “fermiamo col volto triste”.

 

Tutto… finito?

 

I due di Emmaus ci avevano creduto, avevano dato tutto, ma ora pensavano che tutto fosse finito, irrimediabilmente passato. Da qui la loro tristezza! Il mistero di Gesù Cristo, per loro, non era più vicino. E’ impressionante la modalità con cui l’evangelista ricapitola – nel dialogo spirituale abituale per dei pii israeliti – il loro profondo sentire circa gli avvenimenti del giorno precedente. Come è diverso da quello degli altri Suoi seguaci, soprattutto delle donne, che vi avevano visto i segni progressivi dell’esaltante esplosione pasquale: “E’ risorto, non è qui!”. Veramente i loro occhi erano incapaci di riconoscerLo. Quando i segni non sono trattenuti da una libertà coinvolta perdono la loro forza convincente. I due di Emmaus riducono il mistero nella direzione del dato bruto, con cui si paragonano secondo una limitata misura dell’umana ragione. Incapaci di trascendere l’ambito dell’empiria superficiale. Per loro il Messia ha fallito, la Sua morte crocefissa ne è l’irrefutabile prova. La notazione dell’evangelista circa il terzo giorno non trattiene più nulla. I due non si affrettano a vedere il sepolcro vuoto e il racconto dell’apparizione degli angeli non fa che accrescere la loro costernazione. Persino il fatto che uomini autorevoli della loro stessa cerchia confermino la notizia sconvolgente delle donne non rianima la loro speranza. 

 

Non è un poco così anche per noi? Per gli uomini di oggi, che sovente, quando non vivono il dramma di una fede dubbiosa, si concedono il lusso di una non-credenza superficiale, ben lontana dal tormento delle grandi anime? Eliot stigmatizza con espressioni terribili e provocatorie la smemorata scelta di noi, uomini dell’occidente, di allontanarci dal mistero: “Siamo uomini vuoti, uomini impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia… Figure senza forma, ombre senza colore, forze paralizzate, gesti privi di moto”. Se la fede poggia su di un puro passato, se la voragine della storia ha definitivamente inghiottito il Risorto, se il mistero non è vicino, allora Gesù Cristo non può più essere l’evento capace di ridestare l’io, le relazioni costitutive e il popolo. Esso potrà, tutt’al più, essere un pretesto per le nostre intenzioni, per la nostra generosità, per il nostro progetto. Nobile, finché volete, ma pur sempre soltanto un pretesto. Non l’evento di salvezza – totalmente gratuita perché donata da Lui – ma il pretesto per un ostinato sforzo di salvarsi da sé, per l’antica e sempre ritornante tentazione dell’autosoteria. 

 

O è risorto e vive tra noi. O il mistero è vicino e la fede è principio concreto di edificazione personale e sociale. Oppure, se non è risorto e rimane irrimediabilmente relegato nel passato, la fede, nelle migliori delle ipotesi, ricade a livello di una religiosità naturale. Degnissima, ma continuamente esposta alla frustrazione della fragilità ripetitiva, quando non risucchiata dall’ideologia, con le sue inevitabili, violente conseguenze.

 

Se la risurrezione di Cristo non è memoria efficace di un evento che, poggiando su solidi fatti accaduti nel passato, vive nel presente, allora può essere solo un mito, una nobile favola, a cui niente e nessuno toglierà la natura del pretesto. Chi ci libererà da questo destino che pare aver fatalmente segnato l’occidente cristiano? Chi ci convincerà che l’uomo singolare di Nazareth, il Dio incarnato, vivo nella Sua Chiesa, non è un fantasma ma una presenza reale.

 

Offerto al rifiuto della libertà

 

“Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. Egli, all’improvviso, si introduce nel dialogo tra i due con una domanda bruciante: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi durante il cammino?”. E, lentamente, trasforma la loro incapacità di riconoscerLo. L’incontro con il Risorto ravviva gli occhi della loro fede. Chi è disposto a credere è ripagato dal dono del Risorto.  Così è anche per noi. Anche per noi, come per i due di Emmaus, la Sua corporale presenza non è individuabile secondo il limitato metro delle scienze matematiche. L’algoritmo, il nuovo dio con la minuscola, oggi ci domina a tal punto che rischiamo di non saper più cogliere il mistero. Lo riduciamo al non-ancora-noto, al non ancora sperimentalmente riprodotto, vanificando in tal modo lo stesso progresso della scienza, ben lontana ormai – agli occhi dei più avveduti – dall’assolutizzare il puro pensiero calcolante.  Non facciamo forse lo stesso anche con le bellezze naturali o artistiche? Spesso non siamo più capaci di coglierle per quello che sono: il segno del mistero vivo e palpitante che si comunica restando velato, perché solo così rivela il suo amore per noi. Ci ama solo chi chiama la nostra libertà a coinvolgersi. La verità infatti non sarebbe tale se temesse di perdere la propria assolutezza esponendosi al gioco della libertà finita. Gesù Cristo, la verità vivente e personale, ha accettato di offrirsi al rifiuto della libertà dell’uomo! Gesù Cristo, quindi il cristiano, raggiunge gli spazi più estremi dell’umano. Per questo il mistero è sempre vicino. E’ a meno di un millimetro persino dal cuore dell’ateo più ostinato.  Così, quando l’umana ragione, umile e coraggiosa, fa spazio al Mistero, tocca il suo vertice. Allora si apre alla fede e, per grazia, può accogliere la fede cristiana. Verità e libertà – come del resto ci insegna la nostra esistenza quotidiana – sono destinate a sposarsi. 

 

Allo spezzare del pane

 

“Lo riconobbero allo spezzare del pane”. Si accorsero, in quel gesto, di quanto ardesse il loro cuore mentre Lui interpretava le Scritture. In quel gesto la delusione venne dissolta, ogni tristezza fugata, la speranza rianimata. In una parola: la vita riprese a scorrere piena, inesauribile. Veramente la morte di quell’uomo ha ingoiato dal di sotto e definitivamente la nostra morte, verificando l’inaudito annuncio intravisto dal profeta: “O morte, sarò la tua morte”. 

 

Vivendo – attraverso le due coordinate degli affetti e del lavoro – nella Chiesa, ognuno può trovare in Colui che abita tra noi la convincente risposta all’insopprimibile esigenza di senso per l’intera sua vita. Per il mio io, come per quello di ogni uomo, è possibile essere rigenerato, essere fino in fondo custodito da questo Padre misericordioso da cui veniamo e a cui andiamo. E’ possibile vivere il rapporto tra l’uomo e la donna, spalancato alla vita, in pienezza, mediante una famiglia fondata sul sacramento del matrimonio, legame fedele, pubblico e stabile. Per nulla utopico è edificare con realismo la giustizia e la pace.  Certo: tutto questo esige il dono della tua vita, della nostra vita. Né più, né meno. Esige di autoesporsi. In una parola, che conviene ridire – anche a costo che venga subito ridotta dentro le strette maglie del nostro moralismo pietistico –: la verità, che è Gesù Cristo risorto, domanda la tua testimonianza.

   

Resta con noi

 

La testimonianza non richiede particolari eroismi. Essa può cominciare da una semplice e quasi naturale mossa della libertà. Quella di implorare che Colui che ci ha ridestato alla speranza non ci abbandoni. Vogliamo diventare Suoi familiari. Come fanno i bambini con chi li ha conquistati ridiciamo a Gesù: “Resta con noi”. E il miracolo del cuore che riprende ad ardere si produrrà di nuovo. E i segni torneranno a parlare. Come per i Suoi tornarono a parlare il sepolcro vuoto ed il sudario ben riposto e le vesti, e la testimonianza della Maddalena e delle donne cui volle apparire per primo e quella dei discepoli, e la possibilità di riconoscerLo nel Suo vero corpo, trasfigurato dalla Risurrezione. Toccherà anche noi. Tornerà a dirci la vicinanza del mistero il sorriso dolce del bambino, lo sguardo amante della moglie con cui viviamo magari da decenni, il corpo ormai stremato del fratello ammalato e del vecchio, la fatica dell’immigrato, la semplicità disarmante del portatore di handicap, la pena greve del carcerato, la fecondità del perdono… persino l’orrore della guerra potrà toccare il cuore di coloro che reggono le sorti del mondo perché si sostituisca alle armi l’instancabile tentativo del dialogo e della concertazione. 

 

Un’energia nuova

 

E così, alla fine, succederà anche a noi come ai due di Emmaus: “E partirono senza indugio e tornarono dagli apostoli”. Era tardi, il giorno era finito. L’avevano invitato a restare perché ormai, tristi e stremati, erano giunti alla meta. Ma, dopo che si aprirono i loro occhi, si trovarono addosso un’energia nuova. Le cose belle non sono fatte per essere trattenute, devono essere comunicate. Il bello è lo splendore del vero da cui scaturisce il bene. E il bene è diffusivo. Quando, per grazia, il mistero si fa vicino e si rivela alla libertà che lo accoglie, tutto muta. Via la tristezza, via la passività. L’io si rimette in moto. Dalla gratuità dell’incontro con il Risorto sgorga naturale e spontanea una gratitudine che ti mette in azione. Nella Chiesa chiamiamo questo “missione”. Per osmosi, quasi per naturale contagio, da esperienza a esperienza, comunichiamo la nostra sorpresa. Questa è la Chiesa in uscita cui il Papa instancabilmente ci invita. Ma questa è, a ben vedere, anche la natura propria di ogni autentica esperienza umana. È un dato irresistibile. La libertà, coinvolta dalla verità che la chiama, è feconda e genera bene. 

 

Gli occhi della fede compiono l’esperienza dei due di Emmaus, una volta liberati dall’incapacità di riconoscerLo. Questa stessa possibilità è offerta a tutti. Lo è anche al sofisticato e fragile uomo di oggi, come Mario Luzi suggerisce proprio commentando Emmaus: “Ci segue, ci sopravanza, / si accompagna con noi, / per lunghi tratti / ci respira al fianco, / semi quando a notte quasi fatta / entriamo tutti insieme / nella semioscurità della taverna. / Quel pane, quelle mani che lo frangono, / lo sguardo, il troppo lesto addio. Sarebbe / stata poi – lo sapevamo / noi di Emmaus – questa la materia del racconto. / Vennero e se ne andarono al primo fare del giorno. / Di che è mancanza, questa mancanza, / cuore,  / che a un tratto ne sei pieno? / di che? Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza…/ Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce forza e canto / la musica perpetua… ritornerà / Sii calmo”.
 

L’autore è cardinale 
arcivescovo emerito di Milano

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