Preso atto della sconfitta, Ruini sposa la linea di Francesco. A una condizione
Nessuna discriminazione nella comunità dei fedeli ma il peccato deve rimanere peccato. Già nell'esortazione Amoris Laetita di cinque anni fa si potevano intravedere i timori di una rottura
Come spesso capita per gli interventi pubblici di Camillo Ruini, la lettura dell’intervista che il cardinale ha rilasciato al Foglio martedì scorso apre uno squarcio significativo all’intelligenza della situazione attuale della Chiesa e del suo rapporto con la società contemporanea. Le sue parole assumono poi ancor maggior rilievo davanti all’afasia di quella Conferenza episcopale italiana che il cardinale ha guidato con fermezza e successo per oltre un quindicennio.
Il tema dell’intervista riguarda le reazioni ecclesiali al Responsum che la congregazione per la Dottrina della fede ha emanato in relazione alle richieste circa le benedizioni delle unioni tra persone omosessuali. Ruini rileva il vasto dissenso che, in particolare nelle chiese di area germanofona, si è manifestato nei confronti del documento romano: non solo teologi, ma sacerdoti e persino vescovi hanno espresso un netto rifiuto del divieto di procedere alla pratica di questo sacramentale nel caso in cui i fedeli ne facciano richiesta. Pur sperando in un diverso esito, questa vasta mobilitazione, soprattutto se dovesse trovare qualche riscontro positivo nel cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa tedesca, fa paventare al cardinale un possibile scisma. A fondamento della sua posizione Ruini ribadisce le valutazioni espresse dalla congregazione, sottolineandone due punti.
Da un lato ricorda che la Chiesa non ha il potere di benedire le unioni omosessuali, perché può benedire solo ciò che è conforme al disegno di Dio sull’uomo, mentre non lo sono le unioni tra persone dello stesso sesso. Dall’altro lato osserva che la mancata benedizione non può essere considerata una discriminazione, perché la Chiesa prende atto delle trasformazioni intervenute nella sfera pubblica dove l’omosessualità non è più un reato. Ai suoi occhi continua però a essere un peccato, sicché le comunità ecclesiali devono limitarsi ad accogliere caritatevolmente questi peccatori.
Queste due sottolineature sono la chiave dell’intervista: non tanto per il loro contenuto teologico – personalmente ho già espresso altrove la mia diversa valutazione in merito–, ma perché gettano uno squarcio sul posizionamento di un consistente settore del cattolicesimo, quel fronte conservatore di cui Ruini è stato e continua a essere un lucidissimo interprete, sull’attuale governo di Papa Francesco. A questo proposito conviene partire dal ricordo dell’orientamento tenuto dal cardinale nella sua lunga direzione della Cei. Mettendo in pratica la sollecitazione espressa Giovanni Paolo II al convegno ecclesiale di Loreto del 1985, Ruini ha operato per restituire alla Chiesa la guida della società: si trattava di ottenere che le fondamentali norme etiche del cattolicesimo fossero anche norme civili dello stato.
Al fondo di questa concezione stava una convinzione ereditata dalla mentalità intransigente dell’Ottocento: solo se sorretta dalla legislazione pubblica, la Chiesa avrebbe potuto continuare a svolgere un’efficace azione apostolica presso un uomo contemporaneo che si allontanava sempre più dalle sue prescrizioni morali. Ora Ruini sembra prendere atto che la distinzione tra reato e peccato è un portato irreversibile dell’età contemporanea. L’obiettivo a lungo perseguito dalla Chiesa – quella confessionalizzazione di alcune regole fondamentali della legislazione civile che andava appunto sotto il nome di “ruinismo” – viene confinato nel passato. Il cardinale pare dunque manifestare il suo accordo con quanto ha ripetutamente ricordato Francesco. Il regime di cristianità è tramontato: la speranza di rabberciarlo nel sogno di un’ammodernata neo-cristianità è inutile perdita di tempo sotto il profilo pastorale.
Ruini dunque pare accettare la sconfitta dell’orientamento coltivato nel suo lungo governo della Chiesa italiana; ma questo suo allineamento a Francesco non significa condividerne le posizioni. Anzi. Le sue parole evidenziano piuttosto la sostanziale vittoria che gli ambienti conservatori hanno ottenuto rispetto alle prospettive inizialmente aperte dal pontificato di Bergoglio. Il cardinale evoca infatti il rischio dello scisma dell’area germanofona.
Finora lo spettro della frattura ecclesiale era stato agitato dallo sparuto, anche se mediaticamente assai rumoroso, gruppetto dei tradizionalisti, che avevano minacciato di rompere l’unità ecclesiale per le presunte ferite all’ortodossia dottrinale inferte dalle preoccupazioni pastorali del Pontefice argentino. Il Papa, consapevole che funzione essenziale del ministero petrino è il mantenimento dell’unità ecclesiale, aveva risposto con il blocco delle riforme richieste dagli ambienti ecclesiali più aperti. Le timidezze e i rinvii presenti in Amoris laetitia sono la testimonianza eloquente dell’attenzione pontificia a evitare la divisione del corpo ecclesiale.
Non a caso qualcuno aveva allora parlato della fine della “spinta propulsiva” del governo di Papa Francesco. Ora l’intervento di Ruini accentua il pericolo, ricordando la possibilità di uno scisma provocato dall’area “progressista” germanofona. In realtà lo scisma è altamente improbabile nell’odierna società secolare. Ma in questa situazione l’amplificazione retorica dei rischi della rottura ecclesiale ha un inequivocabile significato di politica ecclesiastica: porre la parola fine a quella spinta riformistica del papato di Francesco che i tradizionalisti già erano riusciti ad appannare.
Insomma la presa d’atto della sconfitta del ruinismo, segna l’adesione del cardinale alla linea pontificia a condizione che si arresti ogni ulteriore misura innovativa nel governo della Chiesa. Ovviamente nell’attesa – ma alla luce di quell’insuccesso quanto fondata? – che in un prossimo conclave si riaprano i giochi.
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