l'analisi
Anche la chiesa avrebbe tanto da imparare dalla modernità secolare
Non solo materialismo, ma anche una religiosità piu’ consapevole. È questo il tratto dell'età in cui siamo immersi. E da cui la chiesa può trarre benefici se non rinuncia a puntare sull'unica cosa che conta davvero: la Croce di Gesù Cristo
Nel cambio d’epoca che stiamo attraversando spicca la perdita di peso della chiesa cattolica. Sulla carta le condizioni sembrerebbero favorevoli a una sua presenza più incisiva, visto il bisogno di ridare fiducia e speranza a un mondo martoriato dalla pandemia, minacciato dai mali di sempre e frastornato dai radicali cambiamenti geopolitici, economici e culturali, specialmente tecnologici. Si ha invece l’impressione che proprio oggi la chiesa cattolica fatichi a venire a capo della realtà, a far presa su di essa. La secolarizzazione, almeno in occidente, sembra averla messa in un angolo. Pressoché nulla è la sua influenza politica e culturale, traballante la sua autorità, a dir poco preoccupante la crisi delle vocazioni, per non dire delle lacerazioni che la attraversano in materia di aborto, famiglia, celibato sacerdotale, sacerdozio femminile, solo per citarne alcune.
Per certi versi si tratta di una vecchia storia e, richiamandola, non intendo certo dire che in giro ci sono oggi istituzioni o concorrenti culturali più credibili di quanto sia la chiesa (più potenti sì, ma non più credibili). Colpisce tuttavia che in questo momento di crisi generale la chiesa appaia come ripiegata su se stessa (altro che “in uscita”, come la vorrebbe Francesco) e persino a rimorchio di tendenze culturali non facilmente assimilabili alla sua tradizione. Poco importa purtroppo che tale sudditanza dipenda più da come certi messaggi vengono assorbiti e rilanciati nel vortice dei media che dalla sostanza delle cose. So bene ad esempio che il magistero ecologico di Francesco non è quello dei seguaci di Gea. “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”, si legge nella Laudato si’, marcando in questo modo una differenza radicale rispetto al biocentrismo indifferenziato di molto pensiero ecologista contemporaneo.
Purtroppo, però, rispetto a questa antropologia la stessa chiesa sembra quasi in imbarazzo quando si tratta, poniamo, di affermare senza se e senza ma il valore non negoziabile della vita umana. Matteo Matzuzzi ha scritto pochi giorni fa su questo giornale del monito rivolto dalla congregazione per la Dottrina della fede all’episcopato americano a non esagerare con l’aborto. Lo stesso dicasi per la sollecitudine di Francesco per i poveri. Pur presentando qualche tratto pauperista e terzomondista, ostile al mercato capitalistico, che non mi piace e piace molto invece sia ai grandi pianificatori che ai populisti, certamente tale sollecitudine non è riducibile a questo, visto che è una prerogativa fondamentale della chiesa fin dall’origine. Eppure, dentro e fuori della chiesa, oggi sono in molti a esaltare il magistero sociale di Francesco soprattutto per la sua avversione al mercato capitalistico, magari in difesa della decrescita felice.
Questione di gusti, dirà qualcuno. E sta bene. Ma, proprio perché in materia sociale è assai difficile per chiunque dire parole definitive, non sarebbe male che si spostasse il baricentro su qualcos’altro, anziché dare l’impressione che, anche nella chiesa, si tratti sempre e soltanto di politica: da una parte quelli che stanno con Pietro, dall’altra quelli che stanno con Paolo e via discorrendo. Lo stesso Francesco all’inizio del suo pontificato aveva invitato i cattolici a prendere le distanze dai “collezionisti di anticaglie o di novità”, diciamo pure, dal conservatorismo e dal progressismo. Ma evidentemente la semplice presa di distanza non è sufficiente se non è accompagnata da un pensiero che sappia penetrare a fondo nella complessità del nostro tempo. A tal proposito la chiesa si trova in una situazione di vantaggio e di svantaggio insieme.
Come ho già detto, il mondo secolare l’ha spinta in un angolo, ma questa è soltanto una parte della storia. Dentro la nostra tarda modernità troviamo infatti l’ateismo, certo, ma anche una religiosità più consapevole; troviamo la laicizzazione delle istituzioni pubbliche, ma anche la consapevolezza di quanto la laicità possa rappresentare un vantaggio per la stessa religione; troviamo il nichilismo, ma anche le forze che gli si oppongono. Non a caso i classici della sociologia, da Weber a Luhmann, considerano il cristianesimo come la vera condizione che ha reso possibile la secolarizzazione occidentale, iniziata ben prima della modernità. Non si tratta dunque di una ostilità di principio. Cristianesimo e secolarizzazione sono piuttosto compagni di letto fin dall’inizio e la modernità è il luogo dove il loro connubio dà vita a una molteplicità di “costellazioni”, come le chiama Charles Taylor, da quella “naturalistica”, a quella “romantica”, a quella “tragica e antiromantica”, ognuna delle quali curiosamente può assumere e assume sia sembianze religiose che sembianze irreligiose o addirittura antireligiose.
E’ questo il tratto principale dell’età secolare, dentro la quale siamo immersi ancora oggi. Altro che società postmoderna o post secolare. Se secolarizzazione, tra le altre cose, significa differenziazione tra la sfera religiosa e tutte le altre sfere sociali, vien da pensare che stiamo camminando piuttosto verso una sempre più radicale secolarizzazione, della quale, si spera, i diversi sistemi sociali (religione, politica, scienza, arte e via discorrendo) sapranno sfruttare al meglio le enormi opportunità. La caratteristica più importante della modernità secolare non è quella di aver promosso il materialismo, l’ateismo, il nichilismo o la ripresa del tema religioso, bensì di aver aperto uno spazio in cui le persone possono muoversi in tutte queste opzioni senza essere costrette da nessuno a prendere partito per una di esse. Se ci pensiamo bene, è in questo modo che si sfugge alla guerra tra credenza e non credenza. Ma purtroppo non sempre ci rendiamo conto dell’importanza di questo lascito e del vantaggio che esso potrebbe portare a una chiesa che, anziché imbarcarsi in indagini socio-economiche (a volte frettolose) sulle cause della povertà e dell’ingiustizia, decida di puntare tutto sull’unica cosa che conta per davvero e della quale, oggi come sempre, il mondo ha urgente bisogno: la croce di Gesù Cristo e il suo vangelo di salvezza. Il resto, compresa magari una sorprendente ripresa della sua rilevanza politica e culturale, potrebbe esserle dato in sovrappiù.