L'ultima guerra d'America
E' iniziata la battaglia finale nella Chiesa degli Stati Uniti. In gioco non c'è solo l'agenda politica o la sconfessione di Biden, ma anche l'eredità di un trentennio di predominio neocon
Il mai tramontato desiderio di tornare alla stagione delle culture war. Il problema è che cambiato tutto, a cominciare dal Papa. L’ultimo bastione conservatore è la presidenza della Conferenza episcopale. Tra un anno l’elezione del nuovo presidente. Sarà resa dei conti
Robert McElroy, vescovo di San Diego, è considerato uno dei presuli più progressisti di tutti gli Stati Uniti. Ogni volta che si libera una cattedra episcopale di peso, sia essa Philadelphia o Washington, la destra religiosa americana s’appella a tutti i santi del calendario affinché non sia preso in considerazione per quel posto vacante. E di questa destra cattolica non fanno parte solo i mezzi di comunicazione o gruppi di agguerriti fedeli laici, ma anche tanti confratelli nell’episcopato. Mons. McElroy, qualche giorno fa, si è chiesto – con non poca ironia – come sia possibile ipotizzare che a un rappresentante cattolico abortista sia negata l’eucaristia quando a nessuno viene in mente di fare la stessa cosa per i cattolici notoriamente razzisti. R.R. Reno, gran capo di First Things, autorevole rivista conservatrice americana, ha subito scritto che quella di McElroy è una “falsa equivalenza tra il razzismo – che comporta una grave violazione dei diritti civili e una denigrazione della dignità umana – e l’aborto, che è l’uccisione intenzionale di una vita innocente”. Un atto, aggiunge Reno, “descritto dai Padri della Chiesa come una forma di omicidio. Entrambi i peccati sono gravi, ma non hanno lo stesso peso”. Detto altrimenti, non è un paragone fattibile. Lo sa anche il vescovo di San Diego, che infatti provoca: sa che il terreno è delicato e rovente. Instilla il dubbio che i vertici della Conferenza episcopale siano schierati a destra e che il loro unico obiettivo a breve termine sia disseminare di ostacoli la strada del cattolico Joe Biden, rendendogli la presidenza un calvario e la rielezione un’operazione ardua se non impossibile. Un segreto che poi non è tale: il giorno dell’insediamento del successore di Donald Trump alla Casa Bianca, il capo dei vescovi americani, mons. José Horacio Gómez, diffondeva una Nota in cui elencava tutte le ragioni per cui sarebbe stato complicato collaborare, considerate le posizioni pro choice dell’eletto che pure, appena può, non esista a esibire la propria fede, tra partecipazione a messe e rosari. Mons. Gómez, che è anche arcivescovo della più grande diocesi del paese, quella di Los Angeles, rispolverava toni e modi propri della stagione delle guerre culturali. “Devo sottolineare – scriveva – che il nostro nuovo presidente si è impegnato a perseguire determinate politiche che promuoveranno i mali morali e minaccerebbero la vita e la dignità umana, soprattutto sull’aborto, la contraccezione, il matrimonio e il gender”.
L’effetto, immediato, era quello di coalizzare gli schieramenti sul campo: da una parte i nostalgici del tempo che fu, dall’altra quanti auspicano il superamento di quella fase e il ritorno ai fasti della stagione antica in cui la Chiesa americana era avanguardista e dichiaratamente progressista. L’epoca in cui riluceva la figura di Joseph Bernardin, l’arcivescovo di Chicago (e già presidente della Conferenza episcopale dal 1974 al 1977) che già nel 1983 alla Fordham University gettò le fondamenta di quello che poi sarebbe divenuto – trent’anni dopo – l’ospedale da campo bergogliano. La sentenza della Corte suprema Roe v Wade che aveva legalizzato l’aborto era recente e fresche erano le ferite, ancora sanguinolente. Il cardinale Bernardin guardava i movimenti pro life, sentiva in lontananza il rullare dei tamburi che già faceva presagire il via alle guerre culturali e disse che “la posizione della Chiesa” doveva “essere sviluppata nella forma di una comprensiva e coerente etica della vita (…). Quelli che difendono il diritto alla vita dei più deboli tra noi devono essere altrettanto visibilmente impegnati nel supporto della qualità della vita dei più fragili tra noi: l’anziano e il giovane, l’affamato e il senzatetto, l’immigrante senza permesso e il disoccupato. (…) Coerenza complessiva significa che non si può essere ambivalenti in materia. Non possiamo insistere su una società compassionevole e su una vigorosa politica pubblica che proteggano la vita non nata e affermare, allo stesso tempo, che questa compassione e i programmi pubblici a favore dei bisognosi erodono la fibra morale della società o ricadono al di fuori del compito proprio della responsabilità di governo”. Solo un anno prima, Michael Novak aveva pubblicato The Spirit of Democratic Capitalism in cui si chiedeva se la Chiesa, dopo aver tratto insegnamenti dall’antica Grecia e da Roma non potesse farlo anche dall’America.
Novak – e Bernardin lo sapeva bene – aveva le idee chiare: mirava a definire un cattolicesimo modellato sullo stile di vita americano, puntando tutto sull’affermazione della libertà religiosa, in patria e nel mondo; modello strettamente legato alla diffusione del modello capitalista. Insomma, un progetto che poco aveva a che fare con la “carta” di Bernardin e che oggi sarebbe totalmente inconcepibile per un Pontefice come Francesco, che nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti come modelli di riferimento ha citato “quattro individui e quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio”.
All’inizio di maggio, la congregazione per la Dottrina della fede, tramite lettera firmata dal cardinale prefetto Luis Ladaria, fermava mons. Gómez, già pronto a pubblicare una Nota circa la “dignità di ricevere la comunione”. Una sorta di anatema, una messa all’indice di tutti quei rappresentanti politici cattolici ma al contempo abortisti, favorevoli all’eutanasia, sostenitori convinti delle unioni tra persone dello stesso sesso, sensibili alle tematiche gender. Anime cedeveoli allo Spirito del tempo e sensibili ai canti delle sirene mondane. Comportamento inconcepibile, per i conservatori muscolari, quelli che guidavano i battaglioni delle culture war sotto la protezione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che già nel 2004 avevano proposto la scomunica di John Kerry, della sempiterna Nancy Pelosi e di chi la pensava come loro. L’allora prefetto per la Dottrina della fede, il cardinale Ratzinger, spedì una lettera ai vescovi americani in cui raccomandava prudenza, pur dichiarando tutta la propria comprensione per quanto veniva sostenuto dall’ala intransigente dell’episcopato. Missiva che il presidente mons. Wilton Gregory (oggi arcivescovo di Washington), decise di non diffondere. Anatema, quello di Gómez, però altrettanto inconcepibile nell’èra di Papa Francesco, del suo ospedale da campo aperto a tutti e intento a sanare le ferite anziché suonare la carica per difendere un mondo che non c’è più. “Non ho mai compreso l’espressione ‘valori negoziabili’, disse nella sua prima intervista al Corriere della Sera: “I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per questo non capisco in che senso vi possano essere valori negoziabili”. E’ cambiato tutto, tranne – in parte – l’orientamento delle massime gerarchie episcopali statunitensi. E’ mutato il contesto sociale e culturale, man mano che le evidenze crollavano l’una dopo l’altra. Soprattutto è salito al Soglio di Pietro un Papa che quel modo di fare lo considera puro distillato d’ideologia. Fissazione che alla causa cristiana porta pochissimo, se non danni.
La battaglia, mai come ora campale, è iniziata: i fronti sono gli stessi di sempre, da una parte i conservatori e dall’altra i progressisti. Categorie classiche, forse dalla definizione banale, ma che bene rendono l’idea di come gli schieramenti sono organizzati. Gómez e Cupich, vescovi agli antipodi, nel ruolo di condottieri, api regine al cui seguito si sono subito raggruppati i sodali “operai”. Niente armi in mano, ma tweet, post, comunicati, video. Sapiente e furbo uso dei mezzi di comunicazione. La battaglia è palese, pubblica, molto social. Osservatori, accademici, intellettuali di vario livello si sono seduti in tribuna, pronti a gustarsi lo spettacolo e tifare. Segno dei tempi. Da un lato c’è chi punta a rinverdire i fasti delle culture war, dall’altro chi vuole farla finita una volta per tutte, contando sull’appoggio – tutt’altro che celato – del Papa in carica. Una partita che pare segnata in partenza, considerato il peso che hanno ora i liberal (è sufficiente osservare le nomine episcopali in terra americana degli ultimi anni e le creazioni cardinalizie) e le difficoltà che manifestano i conservatori arroccati nei fortini un po’ dimessi da cui partivano le marce pro life.
Ma è davvero solo una questione di priorità programmatiche e di difficoltà indubbie di una Chiesa – ricca, potente e assai presente – o c’è dell’altro e di più? Qual è il cuore del problema americano? Il fatto è che è in discussione un trentennio di predominio neocon, affermatosi sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e che pure in certi frangenti “tradì” il Papa polacco, a cominciare dalle posizioni contrapposte sulla guerra irachena del 2003. Un predominio che ha forgiato generazioni di vescovi, sistemati da una costa all’altra del paese e che a cavallo degli anni Duemila, e poi con Benedetto XVI, hanno raggiunto il massimo della forza “politica”. Sono loro, con i rispettivi eredi, a voler riprendere la battaglia. Costi quel che costi, anche rischiando di rompere l’unità. Perché è qui che si precipita. L’ha teorizzato George Weigel, biasimando l’intervento del cardinale Ladaria che ha bloccato – o tentato di bloccare, si vedrà – la Nota annunciata da Gómez sui politici cattolici degni di ricevere la comunione. “Il cardinale scrive che i vescovi dovrebbero ‘discutere’”, sottolinea Weigel. Ebbene, aggiunge, “cosa c’è da discutere? E se, Dio non voglia, alcuni vescovi non sono d’accordo con l’insegnamento della Chiesa, perché il loro rifiuto – o la loro confusa comprensione delle sue implicazioni – dovrebbe impedire alla stragrande maggioranza dei vescovi che accettano quell’insegnamento di riaffermarlo e quindi applicarlo?”. L’insegnamento di cui parla Weigel non è una postilla o una noterella a piè di pagina di qualche documento curiale, bensì la Nota dottrinale del 2002 che cita l’enciclica Evanglium vitae di Giovanni Paolo II (1995). Nota che afferma che “coloro che sono direttamente coinvolti nel processo legislativo hanno l’obbligo grave e chiaro di opporsi a qualsiasi legge che attacchi la vita umana. Per loro, come per ogni cattolico, è impossibile, promuovere tali leggi o votarle”. Insomma, osserva il biografo di Wojtyla, qui non c’è niente da discutere o da capire. “Il primo concilio di Nicea non ha aspettato che i sostenitori episcopali di Ario fossero d'accordo prima di insegnare la verità sulla divinità di Cristo. Il Concilio di Efeso non ha aspettato l'accordo di Nestorio e dei vescovi nestoriani prima di insegnare la verità che Maria può essere giustamente chiamata Theotokos, Madre di Dio. L’unanimità non può mai essere a scapito della verità, no?”. E’ un invito a Gómez ad andare avanti nonostante l’alt romano, a pubblicare la Nota annunciata e ad abbandonare ogni tentennamento.
Il cardinale Ladaria, a ogni modo, nella sua missiva riconosceva che aborto ed eutanasia sono “mali morali”, il che ha fornito un assist di non poco conto all’arcivescovo di San Francisco, mons. Salvatore Cordileone, che del fronte dei conservatori muscolari è una punta di diamante: siccome Nancy Pelosi, speaker democratica della Camera, cattolica ma abortista, ha applaudito quanto scritto dal prefetto dell’ex Sant’Uffizio, Cordileone si è detto felice. La “reazione positiva” di Pelosi – ha detto il vescovo – “fa sperare che si possano fare progressi molto seri su questo tema”. E’ ironico, perché subito ricorda che “non dobbiamo mai perdere di vista questo fatto: negli ultimi 50 anni, solo negli Stati Uniti, 66.000.000 di bambini sono stati uccisi nel grembo delle madri. Non è una questione su cui si può usare il giudizio. E’ un fatto. 66.000.000 di bambini uccisi nel grembo materno”.
Tra poche settimane, i vescovi americani si ritroveranno per discutere della questione, in quello che si prospetta come una resa dei conti tra le due anime dell’episcopato. Stavolta con i liberal detti altrimenti – come sostiene un filone non irrilevante dell’accademia cattolica statunitense – “più inclusivi” – in una posizione di forza. Perché, e lo faceva notare già anni fa su questo giornale il vaticanista John Allen, se è vero che le alte gerarchie restano legate all’epoca delle lotte per i valori non negoziabili (e sono per lo più di nomina wojtylana o ratzingeriana), appena si scende si trova un clero che man mano che passa il tempo si sposta più sulle frequenze impostate da Francesco. Analisi che andrebbe aggiornata, considerata l’infornata di porpore americane tutte con parecchio odore di pecore. Non c’è possibilità d’equivocare: i vari Gómez (Los Angeles), Lori (Baltimora), Chaput (ora emerito di Philadelphia), Vigneron (Detroit), che in altre epoche sarebbero già da tempo membri del Collegio cardinalizio, non sono stati neppure presi in considerazione. Altri, come Cupich (Chicago), Gregory (Washington) e Tobin (Newark) hanno ricevuto l’ambita berretta. Insomma, anche il “consiglio d’amministrazione” dell’episcopato americano, quello che detiene i voti per eleggere il Papa, sta cambiando sempre più velocemente per adeguarsi al riorientamento impostato da Roma.
Manca l’ultimo tassello, la Conferenza episcopale, dove resiste l’ancien régime. La domanda è: fino a quando? Tra un anno e mezzo è prevista l’elezione del nuovo presidente: la prassi – che non è la regola, come dimostra l’elezione a sorpresa di Timothy Dolan nel 2010 – è che a diventare numero uno sia il vice uscente. Oggi tale carica è ricoperta da mons. Allen Vigneron, che è pure coordinatore di uno speciale comitato chiamato a stabilire se un cattolico abortista può accostarsi alla comunione. Nell’attuale situazione, però, è tutt’altro scontato che Vigneron possa diventare presidente della potente Conferenza episcopale degli Stati Uniti, e non solo per l’età (74 anni) che avrà al momento del voto. Confermare una linea di netta e chiara opposizione a Roma significherebbe andare al muro contro muro, con tutte le conseguenze del caso. Un’ennesima frattura che lascerà parecchi feriti sul campo.