I fronti aperti del Pontificato
Dalla Germania all'America, non c'è pace per la Chiesa di Francesco. In crisi non è il governo, ma la fede
Cos’è davvero cambiato rispetto a otto anni fa? Per dare una risposta, è necessario capire cosa intenda Francesco per “crisi” e “riforma”
"Quattro anni di Bergoglio basterebbero per cambiare le cose”, confidava a un giornalista della Stampa un cardinale (anonimo) alla vigilia dell’apertura del Conclave dal quale sarebbe poi risultato eletto proprio Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. La Chiesa era scossa da scandali più o meno seri, i corvi volteggiavano minacciosi su San Pietro, i fulmini accompagnavano l’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI annunciata mentre era in discussione la canonizzazione dei martiri d’Otranto – che solo chi non ha letto L’ora di tutti di Maria Corti ha colpevolmente derubricato a evento minore – con buona parte degli eminentissimi che, non a proprio agio con il latino, non avevano capito quel che Ratzinger aveva appena detto. L’atmosfera era davvero quella di fine regno, forse della fine di un’epoca; alle congregazioni generali i cardinali giunti da ogni parte del mondo chiedevano conto dello stato delle finanze e processavano la gestione di Tarcisio Bertone, segretario di stato uscente avversato anche da non pochi amici del Papa bavarese, primo fra tutti l’allora arcivescovo di Colonia, Joachim Meisner.
“Quattro anni basterebbero per cambiare le cose”, si diceva. Di anni ne sono passati otto e il quadro è quello che è: dalla Germania incombe la minaccia di uno scisma, in America torna a spirare il venticello delle guerre culturali che sembravano ormai consegnate agli archivi, in America latina un intero episcopato – quello cileno – è stato costretto a dimettersi dopo che il Papa, recatosi lì in viaggio, era stato accolto da chiese incendiate e bombe carta piazzate qua e là davanti ai luoghi di culto. E poi cardinali che si dimettono, altri che spediscono dubia per ottenere chiarimenti su decisioni vaticane in materia di dottrina, Sinodi che spuntano un po’ ovunque senza sapere bene dove andranno a parare. E la mannaia degli abusi sessuali è sempre lì, come all’epoca di Benedetto, con i rapporti indipendenti e diocesani che scoperchiano misfatti del passato, la grancassa mediatica che mette all’indice la Chiesa quasi fosse un ritrovo di pedofili impenitenti non ricordando mai che il grosso degli abusi sui minori avviene altrove, per lo più in famiglia o nelle palestre, sui campi sportivi.
Alla fine dei conti, cos’è davvero cambiato rispetto a otto anni fa? E’ vero, Francesco aveva detto fin dall’inizio che per smuovere la Chiesa, affinché non si riducesse a essere un polveroso museo, bisognava generare processi, andare al largo senza mete prefissate né obiettivi stabiliti a tavolino. Rischiare, anche senza vedere la rete di protezione sotto ai propri piedi. Dopo otto anni, forse, si avrà la tanto attesa riforma della curia romana, restyling massiccio di competenze e dicasteri come non accadeva da un trentennio: ci sono voluti un consiglio cardinalizio di consulenza, riunioni ogni tre mesi a Roma o su Zoom, bozze inviate ai quattro angoli del pianeta per essere visionate, valutate e spesso riscritte. Ed è il punto meno importante, benché la funzionalità della “macchina” serva a mandare avanti la Barca. Nella lettera con cui ha respinto le dimissioni del cardinale Reinhard Marx dalla guida dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, il Papa va al sodo e spiega cosa intenda lui per riforma, che non è appunto un maquillage né un mero taglio di poltrone curiali: “Ci viene chiesto di riformarci, non – in questo caso – a parole, ma con comportamenti che abbiano il coraggio di metterci in crisi, di accettare la realtà, quali che siano le conseguenze. E tutte le riforme cominciano da se stessi. La riforma nella Chiesa è stata portata avanti da uomini e donne che non hanno avuto paura di esporsi alla crisi e di lasciarsi riformare dal Signore. Questo è l’unico modo; altrimenti saremmo solo ‘ideologi della riforma’ che non mettono in gioco la nostra carne”. Ecco il punto: la riforma parte da se stessi, non è un qualcosa di bello e opportunamente stabilito a tavolino; “fare ‘buoni propositi’ per cambiare la propria vita senza ‘mettere la carne al fuoco’ non porta da nessuna parte”. Che poi è più o meno quanto scrisse anche Yves Congar: “Dinanzi a un mondo che non ammette più il Vangelo se non presentato da una Chiesa irreprensibile, non ci si può più permettere alcunché di meccanico, di comodamente adagiato nel letto che i secoli della fede avevano preparato alla Chiesa. [...] Occorre un ‘cristianesimo di choc’: ora non vi è che un mezzo onesto per produrre uno choc, ma si tratta di un mezzo efficace: essere veramente se stessi, attingendo genuinamente allo spirito delle origini”.
Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Georg Bätzing, ha detto in un’intervista recente che “siamo in un punto di crisi fondamentale delle Chiese, una crisi di credibilità, si tratta di problemi di natura sistemica, che devono essere risolti a livello sistemico”. Sarebbe sbagliato non dare a queste parole la dovuta importanza. La strada per uscire dal vicolo cieco, indica Bätzing, è quella del Sinodo permanente, Ecclesia davvero semper reformanda: loro, in Germania, ci stanno provando. Una grande assemblea biennale, considerata “vincolante” a nord delle Alpi e tutt’altro che tale a Roma. In discussione temi che vanno ben oltre i cahiers de doléances che hanno spinto Marx a dimettersi. Celibato sacerdotale, clericalismo: “Anche qui occorre approfondire il potere presbiterale, contenerlo, considerare con attenzione le cose, è una questione molto importante. E poi la questione delle donne nella Chiesa: dobbiamo progredire nella parità di diritti per le donne a tutti i livelli della vita della Chiesa, e questo non finisce alla frontiera del ministero sacramentale. Lo credo e lo spero”, ha detto il presidente della Conferenza episcopale tedesca. Tutte questioni che in Vaticano sono guardate con preoccupazione: c’è una lettera del Pontefice in persona (giugno 2019) e due successivi moniti lanciati da due dicasteri d’oltretevere che mettono in guardia i vescovi tedeschi dallo spingersi troppo in là con rivendicazioni, agende e richieste. Il clima che si respira in Germania è quello che animò i settori più decisi a rivoltare la Chiesa nei primi anni Sessanta. “Il pubblico vide nell’evento [nel Concilio] una ribellione, un atto di insubordinazione alla curia e l’episodio [la protesta contro l’elezione pro forma dei commissari del Concilio] accese così i sentimenti antiromani e il desiderio primordiale di sfidare l’autorità”, avrebbe ricordato più tardi Joseph Ratzinger, che ai lavori era presente in qualità di perito del cardinale Joseph Frings, che assieme a Suenens e Liénart guidò “la rivolta”. Il Reno, scrisse il giornalista Ralph Wiltgen, “iniziò a scorrere nel Tevere”. E oggi l’atto clamoroso di Marx e le successive dichiarazioni di Bätzing fanno capire che il Reno è determinato a esondare nuovamente, ché gli argini non reggono più la piena. Che la situazione sia grave, poi, lo dimostra la lunga intervista che il cardinale Walter Kasper, non certo accusabile d’essere un oppositore dell’attuale Pontefice né di essere un pericoloso reazionario, ha concesso al Passauer Bistumsblatt: “Perché il cammino sinodale non ha preso più sul serio la lettera di Papa Francesco e, come si conviene a un Sinodo, non ha considerato le questioni critiche alla luce del Vangelo?”. Kasper, che si è detto preoccupato, non condivide neppure gran parte dei temi all’ordine del giorno posti dalla Conferenza episcopale tedesca all’attenzione del percorso sinodale.
La Germania non rappresenta però un fenomeno isolato, quasi fosse la macchia nera sul planisfero della cattolicità. La “crisi delle Chiese” attraversa l’Orbe da un punto all’altro. Si guardi agli Stati Uniti d’America, polo opposto alla Germania ma, paradossalmente, giunto quasi alla medesima rottura con Roma. Lotte politiche tra vescovi –non disprezzando neanche le polemiche via Twitter – chi schierato con il fronte che vorrebbe riportare in auge la stagione delle culture war per l’affermazione dei princìpi non negoziabili, e chi invece ha sposato il nuovo corso impostato da Bergoglio che vuole nell’ospedale da campo aperto a tutti il faro che deve illuminare il mondo. A lungo si è indagato il cosiddetto “problema americano” di Francesco, l’impossibilità – o, quantomeno, l’immane difficoltà – a far conciliare le istanze della realtà ecclesiale statunitense con le priorità introdotte dal 2013 in poi dal primo Papa originario del sud del mondo. Anche questa lettura, però, risulta troppo minimale: se in America rullano i tamburi che annunciano la crociata e in Germania non passa giorno che qualche vescovo dia un ultimatum a Roma, significa che la questione va allargata. Anche perché di certo le cose non vanno meglio a oriente, con i rapporti tesi con Pechino nonostante l’Accordo provvisorio relativo alla provvista dei vescovi diocesani sia stato rinnovato, né in America latina, con l’avanzata delle sette protestanti e i disastri compiuti nei decenni da interi episcopati come quello cileno, raso al suolo da Francesco per le immani coperture accertate di abusatori seriali.
Generare processi ha agitato le acque stagnanti. Ma al contempo ha dimostrato come la crisi delle Chiese – per restare nella definizione usata da Marx e Bätzing – sia primariamente una crisi di fede, non di strutture. Sarebbe troppo facile, in fin dei conti: basterebbe un rimpasto, una ristrutturazione veloce, un maquillage e tutto sarebbe risolto. Mancano preti? Apriamo al sacerdozio femminile passando per le diaconesse. Ci sono casi di pedofilia? Se togliamo la prassi celibataria, forse la situazione migliora. Tutti discorsi che si sentono quotidianamente, benché conditi ça va sans dire da dotte riflessioni teologiche. Forse, però, il problema è più complesso e si torna giocoforza alla questione della fede. In un editoriale della Civiltà Cattolica dell’ottobre 1988 (intitolato non a caso “La credibilità della Chiesa”) si legge che “un millennio di quasi incontrastata supremazia ecclesiastica, e non solo nella cultura, ha fatto sì che l’occidente sia impastato di cristianesimo nelle sue molteplici manifestazioni. Ma esso oggi rifiuta, pur riconoscendola di malavoglia, questa sua matrice e, come fanno i fanciulli quando diventano adulti, tende a relegare l’influsso della Chiesa nell’ambito della pura supplenza. La Chiesa, cioè, è considerata un po’ come la balia della civiltà occidentale, che, essendo cresciuta, riconosce l’opera compiuta nei suoi riguardi dall’antica nutrice, ma contemporaneamente aspira a una propria autonomia, a sganciarsi da qualsiasi fastidiosa tutela: in breve, a costruirsi da se stessa il proprio futuro”.
Quanto alla credibilità, “la credibilità dei cristiani e della Chiesa si rafforza o scema a seconda della compiuta o mancata realizzazione dei princìpi evangelici all’interno della Chiesa stessa. Sarà molto difficile ricostruire l’io perduto dell’uomo d’oggi intorno al messaggio di Gesù, se la comunità che ha accolto e tramanda quel messaggio si presenta come una comunità non ‘liberata’ dalla parola che predica”. Ecco che allora bisogna fare tesoro delle tante crisi che scuotono la Chiesa, affrontarle vivendole. Parlando ai cardinali riuniti in Vaticano per gli auguri natalizi, lo scorso dicembre, Francesco osservò che “la crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. E’ presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare. Come ricorda la radice etimologica del verbo krino: la crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura”. Ben venga la crisi, dunque, purché non venga confusa con il conflitto: “Sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti. La logica del conflitto cerca sempre i ‘colpevoli’ da stigmatizzare e disprezzare e i ‘giusti’ da giustificare per introdurre la consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di ‘gruppi chiusi’ che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono l’universalità della nostra missione”.