Non c'è pace nella Chiesa di Francesco, ora la guerra è alla messa in latino
Il Papa manda in soffitta il motu proprio con cui Benedetto XVI liberalizzava la messa in rito antico. Un nuovo fronte del tutto evitabile
Bergoglio è sempre più un generale che apre fronti di guerra: dagli ex amici (Enzo Bianchi), ai movimenti ecclesiali, dai tradizionalisti ai suoi cardinali. Divisioni, senso di frustrazione tra cattolici, incapacità di capire quale sia la rotta della Chiesa
In quest’estate di decreti e motu proprio, di processi e terremoti interni alle conferenze episcopali nazionali, il Papa ha deciso di aprire un nuovo fronte di guerra interno, facendola finita anche con il Summorum pontificum di Benedetto XVI che autorizzava la messa nel rito antico. Non è un’abolizione esplicita, ma il documento diffuso ieri (motu proprio Traditionis custodes) pone così tanti cavilli e condizioni che è prevedibile un crollo della frequenza a quelle celebrazioni (che poi è l’obiettivo dichiarato). Un passaggio su tutti: “I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica”. Celebrazioni che potranno aver luogo, si sottolinea, “non nelle chiese parrocchiali”. Il motu proprio è accompagnato da una lettera papale spedita ai vescovi di tutto il mondo; lettera di inusuale durezza ma che ha il pregio di non nascondersi dietro al (questo sì) frequente prudenziale linguaggio diplomatico. “A distanza di tredici anni (dalla promulgazione del Summorum pontificum, ndr) ho incaricato la congregazione per la Dottrina della fede di inviarvi un questionario sull’applicazione del motu proprio Summorum pontificum. Le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire. Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso ‘fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente, è stato spesso gravemente disatteso’. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni”. Ovvia è la conseguenza: “E’ per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la messa con il Missale Romanum del 1962”. Per spiegare la decisione, Francesco torna a san Pio V, il Papa di Lepanto: “Dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum. Per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del rito romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa”.
“Non per contraddire la dignità e grandezza di quel rito i vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che ‘i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede, ma, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipassero all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente’. San Paolo VI, ricordando che l’opera di adattamento del Messale Romano era già stata iniziata da Pio XII, dichiarò che la revisione del Messale Romano, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, ‘una sola e identica preghiera’ che esprimesse la sua unità. Questa unità – scrive Francesco – intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di rito romano”.
Il Papa mette nero su bianco i motivi che l’hanno portato a cancellare de facto uno dei principali atti del pontificato ratzingeriano, osservando che “è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la ‘vera Chiesa’. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione”. E’ innegabile che in diversi contesti, negli anni, si siano formate delle ridotte che, ancorate alla celebrazione in rito antico, mettevano in discussione il Vaticano II e perfino la legittimità dei Papi eletti dopo quell’assise. Anziché, però, mirare alla rimozione chirurgica del bubbone incancrenito prima che si diffondesse nel resto del corpo, si è scelto il bombardamento a tappeto dalle conseguenze facilmente immaginabili: anziché favorire l’unità, si rischia di alimentare un’ennesima spaccatura, tra l’altro favorendo evitabili fughe verso la comunità lefebvriana. Quando i problemi gravi sono altri, come dimostrano i drammatici dati sugli abbandoni dei cattolici in Germania (-221.390 nel 2020). Nel sole di questo pontificato che inesorabilmente tramonta, Francesco è sempre più un generale che apre fronti di guerra, contro tutti: dagli ex amici (Enzo Bianchi), ai movimenti ecclesiali, dai tradizionalisti ai suoi cardinali. Divisioni, senso di frustrazione tra cattolici, incapacità di capire quale sia la rotta della Chiesa. Sperando che alla fine non restino solo macerie.
Editoriali
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