La Chiesa è ancora in grado di rispondere alle domande dell'uomo d'oggi?
La questione è molto più seria rispetto a un semplice problema di disciplina. Se rivendicasse un cambiamento della sua fede o della sua liturgia, a che titolo la Chiesa oserebbe rivolgersi al mondo? La sua unica legittimità è la sua coerenza nella continuità
Questo testo, apparso sul Figaro il 14 agosto, è pubblicato in italiano con il permesso dell’autore
Il dubbio si è impadronito del pensiero occidentale. Intellettuali e politici descrivono allo stesso modo la medesima impressione del crollo. Dinanzi al venire meno della solidarietà e alla disgregazione delle identità, alcuni si rivolgono alla Chiesa cattolica. Le chiedono di dare loro una ragione per vivere insieme a individui che hanno dimenticato ciò che li unisce come un solo popolo. Le chiedono di dare “un po’ più di anima” per rendere sopportabile la fredda durezza della società dei consumi. Quando un sacerdote è assassinato, tutti sono toccati e molti si sentono colpiti nel profondo.
Ma la Chiesa è capace di rispondere a questi appelli? Certo, ha già svolto questo ruolo di custode e trasmettitore della civiltà. Al crepuscolo dell’Impero romano, ha saputo trasmettere la fiamma che i barbari minacciavano di spegnere. Ma ne ha ancora oggi i mezzi e la volontà per farlo? Alla base di una civiltà, ci può essere solo una realtà che la supera: “una sacra invariante”. Malraux lo notava con realismo: “La natura di una civiltà è ciò che sta attorno a una religione. La nostra civiltà è incapace di costruire un tempio o una tomba. Sarà costretta a ritrovare il suo valore fondamentale o si decomporrà”.
Senza un fondamento sacro, sono aboliti i limiti protettivi e invalicabili. Un intero mondo profano diventa una vasta distesa di sabbie mobili. Tutto è tristemente aperto ai venti dell’arbitrio. Senza la stabilità di un fondamento che sfugge all’uomo, la pace e la gioia – segni di una civiltà duratura – sono costantemente inghiottite da un senso di precarietà. L’angoscia di un pericolo imminente è il segno distintivo dell’epoca barbarica. Senza un fondamento sacro, ogni legame diventa fragile e incostante.
Alcuni chiedono alla Chiesa cattolica di svolgere questo ruolo di fondamento solido. Vorrebbero vederla assumere una funzione sociale, essere cioè un sistema coerente di valori, una matrice culturale ed estetica. Ma la Chiesa non ha altra realtà sacra da offrire che la sua fede in Gesù, Dio fatto uomo. Non ha altro scopo che rendere possibile l’incontro degli uomini con la persona di Gesù. L’insegnamento morale e dogmatico, così come l’eredità mistica e liturgica, sono il contesto e il mezzo per questo incontro fondamentale e sacro. La civiltà cristiana nasce da questo incontro. La bellezza e la cultura ne sono i frutti.
Per rispondere alle attese del mondo, la Chiesa deve quindi ritrovare se stessa e assumere la parola di san Paolo: “Non volevo conoscere tra voi altro che Gesù e Gesù crocifisso”. Deve smettere di considerarsi un sostituto dell’umanesimo o dell’ecologia. Queste realtà, benché buone e giuste, sono per la Chiesa nient’altro che conseguenza del suo unico tesoro: la fede in Gesù Cristo. Ciò che è sacro per la Chiesa è dunque la catena ininterrotta che la lega con certezza a Gesù. Catena di fede senza rottura né contraddizione, catena di preghiera e di liturgia senza rottura né rinnegamento. Senza questa continuità radicale, quale credibilità potrebbe ancora pretendere la Chiesa? In essa, non c’è un ritorno al passato, ma uno sviluppo organico e continuo che chiamiamo tradizione viva. Il sacro non può essere decretato, è ricevuto da Dio e trasmesso.
Questa è senza dubbio la ragione per la quale Benedetto XVI ha potuto autorevolmente affermare: “La storia della liturgia è fatta di crescita e di progresso, mai di rottura. Ciò che era sacro per le generazioni precedenti rimane grande e sacro anche per noi e non può essere improvvisamente del tutto proibito, o addirittura considerato dannoso. E’ bene per tutti noi conservare le ricchezze cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dare loro il posto che spetta”. In un momento in cui certi teologi cercano di riaprire la guerra liturgica opponendo il messale del Concilio di Trento a quello in uso dal 1970, è urgente ricordarlo. Se la Chiesa non è capace di preservare la continuità pacifica del suo legame con Cristo, non può offrire al mondo “il sacro che unisce le anime”, per dirla con Goethe.
Al di là della lite sui riti, in gioco c’è la credibilità della Chiesa. Se essa afferma la continuità tra quella che comunemente viene chiamata la messa di san Pio V e la messa di Paolo VI, allora la Chiesa deve essere capace di organizzare la loro pacifica convivenza e il loro mutuo arricchimento. Se fosse escluso radicalmente l’uno in favore dell’altro, se li si dichiarasse inconciliabili, si riconoscerebbe implicitamente una rottura e un cambiamento di orientamento. Ma allora la Chiesa non potrebbe più offrire al mondo questa continuità sacra che sola può dare pace. Mantenendo al suo interno una guerra liturgica, la Chiesa perderebbe la sua credibilità rendendosi sorda all’appello degli uomini. La pace liturgica è il segno della pace che la Chiesa può portare al mondo. La questione è dunque molto più seria rispetto a un semplice problema di disciplina. Se rivendicasse un cambiamento della sua fede o della sua liturgia, a che titolo la Chiesa oserebbe rivolgersi al mondo? La sua unica legittimità è la sua coerenza nella continuità.
Inoltre, se i vescovi, responsabili della coabitazione e dell’arricchimento reciproco delle due forme liturgiche non esercitano la loro autorità in questo senso, corrono il rischio di non apparire più come pastori, custodi della fede ricevuta e delle pecore loro affidate, bensì come capi politici: commissari dell’ideologia del momento piuttosto che custodi della tradizione perenne. Rischiano di perdere la fiducia degli uomini di buona volontà. Un padre non può introdurre diffidenza e divisione tra i suoi figli fedeli. Non può umiliare alcuni opponendoli ad altri. Non può ostracizzare alcuni dei suoi sacerdoti. La pace e l’unità che la Chiesa pretende di offrire al mondo devono prima essere vissute al suo interno. In materia liturgica, né la violenza pastorale né l’ideologia partigiana hanno mai portato all’unità. La sofferenza dei fedeli e l’attesa del mondo sono troppo grandi per intraprendere queste strade senza uscita. Nessuno è di troppo nella Chiesa di Dio!
Robert Sarah, Cardinale prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti
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