il foglio del weekend
Il Pontificato della discordia
Tra divisioni e crisi, ultimatum e ammutinamenti. Quel che resterà della “Chiesa in uscita” di Francesco
All’inizio di agosto, su questo giornale, un gruppo di cattolici chiedeva umilmente al Papa di porre fine alla “guerra civile” nella Chiesa, di dare l’alt agli scontri “come un Padre che guarda al bene di tutti i suoi figli, e non come il capo di una corrente clericale che sembra voler utilizzare la sua autorità monarchica, sino in fondo, spesso oltre i confini del diritto canonico, per realizzare un’ideologica agenda personale”. La tesi è che questa “guerra civile”, ormai in corso da più di otto anni, ha lasciato parecchi morti e feriti sul terreno: l’ospedale da campo, simbolica ed efficace immagine che lanciò il programma bergogliano nel 2013, è così ridotto a essere sì ospedale, ma per chi è rimasto scottato e spiritualmente ferito da parole e opere di Francesco. Il prodotto del conflitto intestino sarebbe il grande incendio che vede la Chiesa bruciare, come da altrettanto efficace titolo del recente saggio edito da Laterza e firmato da Andrea Riccardi, non certo assimilabile tra quanti attendono con ardore la fine del presente pontificato. Riccardi, che di storia della Chiesa ne sa come pochi, fa nel suo volume (che non è, sia chiaro, un j’accuse al pontificato di Francesco) una diagnosi impietosa dello stato delle cose: continua riduzione della pratica religiosa, calo delle vocazioni, minore incidenza della presenza cattolica nella vita pubblica. Una situazione di vuoto, insomma, ben esemplificata dalle fiamme che avvolsero un anno e mezzo fa la cattedrale di Notre-Dame, a Parigi. La crisi è chiara ed evidente, il campo di battaglia è ben delimitato e se non è proprio guerra ci si va molto vicino: è tempo di lotta contro l’indifferenza e il discredito.
Problemi, come s’intuisce, vecchi di decenni e oggetto di studi e analisi che a poco hanno portato se non al ribadire il grado di profondità dell’instabilità in cui versa la Chiesa. Certo, stavolta è forse più grave, se è vero che Riccardi si domanda se sia una delle tante crisi che hanno fatto sussultare il Cupolone o se siamo davanti all’inizio dell’agonia, preludio alla fine. Nel 2013, raccogliendo le istanze dei cardinali che chiedevano di aprire le finestre vaticane per fare entrare aria fresca, Francesco sancì il dogma della Chiesa in uscita: tutti fuori, salpare verso mete ignote, veleggiare al largo costi quel che costi. Lasciando a terra tutto il superfluo, liberandosi di lacci più o meno stretti che tenevano ancorata la Chiesa a un presente immutabile. Un azzardo, mormorò qualcuno. Una necessità, dissero altri, i “realisti” che non vedevano altra soluzione per uscire dalle secche e dal pantano che pareva aver bloccato la Barca tra scandali, fughe di notizie, accerchiamento mediatico e corvi svolazzanti. Francesco novello Magellano: avanti verso mari inesplorati, senza guardarsi indietro e senza badare troppo a mormorii e ribellioni, dati per scontati e inevitabili. Dopotutto, si diceva, “il tempo è superiore allo spazio”. Rivolte che però, come ci furono in occasione della grande epopea cinquecentesca rallentando la spedizione verso l’altra parte del globo, ci sono ora rendendo il mantra della “Chiesa in uscita” uno slogan svuotato di senso e contenuti. Un anno fa si discuteva, sulla scia di un fondamentale articolo pubblicato sulla Civiltà Cattolica, dell’esaurimento della spinta propulsiva del pontificato di Francesco. Ci si chiedeva, cioè, se fosse iniziata la fase calante – che può essere anche lunga, come osservò Alberto Melloni, convinto pure lui che tutto quel che aveva da dire la stagione bergogliana sia stato detto – stante un sostanziale immobilismo che ha nella tempistica elefantiaca con cui viene scritta la riforma della curia romana (ci si lavora da otto anni e mezzo) l’esempio migliore. La risposta del periodico gesuita è che a essere sbagliata è la domanda, visto che – si notava – “la domanda su quale sia ‘il programma’ di Papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile. Francesco crea le condizioni strutturali di un dialogo reale e aperto, non preconfezionato e studiato a tavolino strategicamente”.
I problemi che alimentano la crisi della Chiesa non sono nuovi né addebitabili a Papa Francesco: è da un cinquantennio che in occidente la partecipazione alle messe domenicali è in calo, per non parlare del crollo vocazionale che dal Dopoguerra è indagato dai sociologi che s’occupano di materia ecclesiastica. Nell’Europa centro-settentrionale spesso presa a paradigma del tramonto della fede nel Vecchio continente, i primi segnali d’allarme risalgono già ai primi decenni del Novecento. Non è certo responsabilità di Francesco se in mezza Europa le chiese sono trasformate in musei (quando va bene) o in moderne sale da ballo e piste da skateboard (quando va male). E non è neppure una fissazione del Pontefice regnante quella di indirizzare lo sguardo sull’Asia e l’Africa quali “serbatoi” di una fede giovane e dinamica: è realismo e per accorgersene è sufficiente ripassare a mente le immagini iconiche dei viaggi papali in quelle terre. La devozione profonda, la fede fervida, l’entusiasmo che alle nostre latitudini sono divenuti perle rarissime.
Ma davanti a tale quadro di crisi, quasi unanimemente riconosciuto, cosa è stato fatto per invertire la tendenza? E’ qui che il quadro inizia a farsi meno nitido. Proprio come Magellano, Francesco ha lasciato dietro di sé rivolte e ammutinamenti. Certo, scrive Andrea Riccardi, “non si poteva presumere, in modo miracolistico, che l’entusiasmo dell’elezione si trasformasse nella soluzione dei problemi”. Il che è vero, benché nelle settimane e nei mesi successivi all’elezione di Jorge Mario Bergoglio sembrava davvero, stando alle cronache, che qualcosa fosse mutato in modo evidente, quasi che bastasse cambiare Papa per vedere rifiorire la Chiesa. Chiesa che oggi è divisa più che mai in una Babele dove ogni parroco, vescovo e cardinale si sente in dovere di dire la sua su una determinata questione, di interpretare i documenti vaticani aggiungendo, sfumando, arricchendoli di appendici a volte imbarazzanti quanto a contenuto e ideologia ispiratrice. E il Papa che fa?
Divisioni e spaccature hanno attraversato da sempre la storia della Chiesa, che non era di certo un tranquillo Eden prima dell’elezione dell’allora arcivescovo di Buenos Aires. Ma Francesco ha fatto qualcosa di nuovo: anziché cercare l’armonia, ricomponendo i conflitti, ha preferito portarli alla luce del Sole in una sorta di drammatica operazione-verità. Voluta e non subìta. Chiarezza, insomma: parresia. Meglio dire quello che si pensa, “con faccia tosta” anziché “sparlare”, che è “terrorismo” delle chiacchiere”. Spesso, le tensioni, le ha addirittura favorite. Francesco non cerca il compromesso, vuole la resa di chi frappone ostacoli alla sua legittima agenda. Una logica militare, un po’ da età napoleonica, ma tant’è. E’ sbagliato fermarsi alla litania che vuole i tradizionalisti gettati nelle tenebre là dove c’è pianto e stridore di denti e i progressisti beatificati in vita. Ne sa qualcosa il fondatore di Bose, sfrattato dal suo eremo con tanto di lettera. E ne sa qualcosa il cardinale Angelo Becciu, lui che ospitava ogni anno a pranzo il Papa e che dal Papa è stato privato dei diritti cardinalizi e mandato davanti a una corte penale vaticana senza che per nove mesi fossero chiariti i motivi e i capi d’imputazione. La missione di Francesco, rivoluzionare la Chiesa, non ammette ostacoli, anche se si tratta di giungere a dolorosi strappi e infliggere umiliazioni a uomini con cui aveva stretto rapporti di profonda amicizia e sintonia. Si dice che una volta abbia confidato che potrebbe passare alla Storia come il Papa che ha contribuito a dividere la Chiesa. Si vedrà.
Fin dall’inizio è stato chiaro che ciò che più stava a cuore a Francesco era l’impegno a “generare processi”, avviando un cambiamento strutturale e prima ancora “mentale”, finalizzato cioè a immaginare la Chiesa non più come una struttura piramidale dove tutto viene deciso a Roma, ma delegando alle periferie, adattando norme e comportamenti alle particolari situazioni locali. Tante piccole Chiese unite nella carità al vertice romano. Si è creata confusione, con tanti che hanno letto questo nuovo corso come il via libera a un’autonomia che in realtà non esiste, confondendo sovente la sinodalità con la collegialità. Con il Papa che sempre più spesso è chiamato a ricordare – con lunghe lettere, motu proprio o semplici discorsi – che va bene l’autonomia, ma poi tutto deve essere sempre deciso e attuato sub Petro. E’ il principio della devolution in chiave ecclesiastica ad aver fatto esplodere lotte che da tempo covavano sotto traccia, ma che sempre s’era evitato di far emergere in superficie, risparmiando alla Chiesa laceranti rotture forse non opportune in un tempo d’incendi diffusi (per tornare al titolo di Riccardi) in cui la rilevanza dell’Istituzione cattolica è ridotta ai minimi termini.
E un campo dove la guerra civile si sta già combattendo sono gli Stati Uniti, con la conta estiva dei vescovi favorevoli a negare la comunione al pro choice Joe Biden e quelli che non vogliono più sentire parlare di culture war. “A mio avviso, è necessario comprendere il contesto della società americana in generale per comprendere la situazione della Chiesa in particolare”, dice al Foglio Robert Royal, presidente del Faith & Reason Institute, con base a Washington. “La nostra società soffre di divisioni profonde e acrimoniose su razza, sesso, politica e molto altro. E’ così brutto che a volte nel recente passato ci siamo chiesti se fossimo sull’orlo di una guerra civile. Fortunatamente, ciò non è accaduto”. Eppure, la divisione c’è: “Sulla comunione per Biden, sui gay, sul ruolo delle donne. E sebbene di queste divisioni si parli molto sulla stampa cattolica, il cattolico medio – specialmente quelli che frequentano la messa ogni domenica (circa il 25 per cento dei cattolici americani) – non è molto agitato. Rispetto al tumulto nel paese nel suo insieme, il tumulto nella Chiesa non sembra così acuto”. E a livello più alto, di gerarchie? “Per me – continua Royal – è significativo che pochi, pochissimi, vescovi americani abbiano risposto con entusiasmo al motu proprio Traditionis Custodes sul rito antico. Tranne tre o quattro, tutti dicevano, più o meno ‘lasciamo le cose come stanno mentre studiamo il testo’. In pratica, stanno dicendo che ignoreranno il provvedimento. E direi anche che mentre Papa Francesco ha contribuito alle divisioni all'interno della Chiesa – facendo infuriare molti che assistono alla tradizionale messa in latino – una grande percentuale di cattolici si è disillusa nei suoi confronti ed è arrivata al punto di non prestare molta attenzione a quello che dice più. Una situazione triste, ma è lì che siamo”. Discorsi simili potrebbero essere fatti per altri contesti, a cominciare da quello tedesco per arrivare alla particolare situazione della regione amazzonica, che solo un anno e mezzo fa ha avanzato in un Sinodo richieste tali da mettere in discussione prassi antiche universalmente accettate.
Stando così le cose, l’interrogativo naturale è: cosa ne sarà dopo? A cosa porterà l’autonomia e il conferimento di qualche “autentica autorità dottrinale” alle conferenze episcopali locali? Qualche osservatore, tempo fa, non si sa quanto ironicamente, avanzava l’ipotesi di una Chiesa cattolica simile alle realtà ortodosse con la loro autocefalia: a Los Angeles si fa in un modo, a Manila in un altro, a Parigi in un altro ancora. Quel che è certo perché già evidente è che il “fai-da-te” più che risolvere i problemi li amplifica: anziché assistere alla proposta di strade nuove, di metodi “innovativi” per evangelizzare e ridestare chi è caduto in letargo, quel che l’attualità offre è una lunga lista di rivendicazioni, sovente con toni ultimativi. Cosa resterà di questa fase storica che in qualche modo rompe con ciò che c’era prima? Una nuova primavera o solo macerie sparse? Robert Royal portava l’esempio del motu proprio sulla messa in rito antico: qual è stato il risultato del provvedimento dopo poco più di un mese dalla promulgazione? L’obiettivo dichiarato, messo per iscritto nella lettera d’accompagnamento, era quello di “difendere l’unità del Corpo di Cristo” e di porre fine alle divisioni consolidatesi con il Summorum pontificum di Benedetto XVI nel 2007. A guardare le reazioni, al di qua e al di là dell’oceano, sembrerebbe che il risultato sia l’opposto, tant’è che non si contano (tanti che sono) i presuli che hanno assunto un atteggiamento assai prudente nell’applicazione delle disposizioni.
Il quadro è fluido e il tempo non volge al sereno. “I parametri vitali del ‘corpo ecclesiale’ danno segnali preoccupanti”, scrive Andrea Riccardi: “Va da sé che la fine di un corpo sociale bimillenario come la Chiesa non è simile alla scomparsa di un uomo, perché lascia dietro di sé, per tempi lunghissimi, tracce, eredità, istituzioni e tant’altro. Forse si potrebbe sospettare che la soglia della fine sia già passata e che stiamo operando sui ‘resti’ di un processo ormai avanzato. Capisco che per i credenti non sia facile accettare questa ipotesi, che potrebbe essere tacciata di pessimismo. Ma è onesto intellettualmente e responsabile misurarsi anche con essa”. Probabilmente solo tra qualche anno si saprà con certezza se la crisi presente porterà a conseguenze positive e insperate o se invece davvero si è già oltre la fine.
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