Le parole
Papa Francesco: "La chiesa non è una fortezza"
“Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio serve creatività, non lamentarsi o ritirarsi dal mondo”. Il discorso del Pontefice
Pubblichiamo ampi stralci del discorso tenuto dal Pontefice a Bratislava davanti ai vescovi slovacchi, ai sacerdoti, ai religiosi, ai seminaristi e ai catechisti riuniti nella cattedrale di San Martino
La prima cosa di cui abbiamo bisogno: una Chiesa che cammina insieme, che percorre le strade della vita con la fiaccola del Vangelo accesa. La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo. Per favore, non cediamo alla tentazione della magnificenza, della grandezza mondana! La Chiesa deve essere umile come era Gesù, che si è svuotato di tutto, che si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9): così è venuto ad abitare in mezzo a noi e a guarire la nostra umanità ferita.
Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa. Usciamo dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture, per come la società ci guarda. E questo alla fine ci porterà a una “teologia del trucco”… Come ci trucchiamo meglio… Immergiamoci invece nella vita reale, la vita reale della gente e chiediamoci: quali sono i bisogni e le attese spirituali del nostro popolo? Che cosa si aspetta dalla Chiesa? A me sembra importante provare a rispondere a queste domande e mi vengono in mente tre parole.
La prima è libertà. Senza libertà non c’è vera umanità, perché l’essere umano è stato creato libero e per essere libero. I periodi drammatici della storia del vostro paese sono un grande insegnamento: quando la libertà è stata ferita, violata e uccisa, l’umanità è stata degradata e si sono abbattute le tempeste della violenza, della coercizione e della privazione dei diritti.
Allo stesso tempo, però, la libertà non è una conquista automatica, che rimane tale una volta per tutte. No! La libertà è sempre un cammino, a volte faticoso, da rinnovare continuamente, lottare per essa ogni giorno. Non basta essere liberi esteriormente o nelle strutture della società per esserlo davvero. La libertà chiama in prima persona a essere responsabili delle proprie scelte, a discernere, a portare avanti i processi della vita. E questo è faticoso, questo ci spaventa. Talvolta è più comodo non lasciarsi provocare dalle situazioni concrete e andare avanti a ripetere il passato, senza metterci il cuore, senza il rischio della scelta: meglio trascinare la vita facendo ciò che altri – magari la massa o l’opinione pubblica o le cose che ci vendono i media – decidono per noi. Questo non va. E oggi tante volte facciamo le cose che decidono i media per noi. E si perde la libertà. Ricordiamo la storia del popolo di Israele: soffriva sotto la tirannia del faraone, era schiavo; poi viene liberato dal Signore, ma per diventare veramente libero, non solo liberato dai nemici, deve attraversare il deserto, un cammino faticoso. E veniva da pensare: “Quasi quasi era meglio prima, almeno avevamo un po’ di cipolle da mangiare…”. Una grande tentazione: meglio un po’ di cipolle che la fatica e il rischio della libertà. Questa è una delle tentazioni. Ieri, parlando al gruppo ecumenico, ricordavo Dostoevskij con “Il grande inquisitore”. Cristo torna in terra di nascosto e l’inquisitore lo rimprovera per aver dato la libertà agli uomini. Un po’ di pane e qualcosina basta; un po’ di pane e qualcos’altro basta. Sempre questa tentazione, la tentazione delle cipolle. Meglio un po’ di cipolle e di pane che la fatica e il rischio della libertà. Lascio a voi di pensare a queste cose.
A volte anche nella Chiesa questa idea può insidiarci: meglio avere tutte le cose predefinite, le leggi da osservare, la sicurezza e l’uniformità, piuttosto che essere cristiani responsabili e adulti, che pensano, interrogano la propria coscienza, si lasciano mettere in discussione. E’ l’inizio della casistica, tutto regolato… Nella vita spirituale ed ecclesiale c’è la tentazione di cercare una falsa pace che ci lascia tranquilli, invece del fuoco del Vangelo che ci inquieta, che ci trasforma. Le sicure cipolle d’Egitto sono più comode delle incognite del deserto. Ma una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso. Forse alcuni sono abituati a questo; ma tanti altri – soprattutto nelle nuove generazioni – non sono attratti da una proposta di fede che non lascia loro libertà interiore, non sono attratti da una Chiesa in cui bisogna pensare tutti allo stesso modo e obbedire ciecamente.
Carissimi, non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. E’ un rischio. E’ una sfida. Lo dico soprattutto ai pastori: voi esercitate il ministero in un paese nel quale tante cose sono rapidamente cambiate e sono stati avviati molti processi democratici, ma la libertà è ancora fragile. Lo è soprattutto nel cuore e nella mente delle persone. Per questo vi incoraggio a farle crescere libere da una religiosità rigida. Uscire da questo, e che crescano liberi! Nessuno si senta schiacciato. Ognuno possa scoprire la libertà del Vangelo, entrando gradualmente nel rapporto con Dio, con la fiducia di chi sa che, davanti a Lui, può portare la propria storia e le proprie ferite senza paura, senza finzioni, senza preoccuparsi di difendere la propria immagine. Poter dire: “Sono peccatore”, ma dirlo con sincerità, non batterci il petto e poi continuare a crederci giusti. La libertà. L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!
Sono sicuro che questo mai si saprà da dove viene. Vi dico una cosa che è successa tempo fa. La lettera di un vescovo, parlando di un nunzio. Diceva: “Mah, noi siamo stati 400 anni sotto i turchi e abbiamo sofferto. Poi 50 sotto il comunismo e abbiamo sofferto. Ma i setti anni con questo nunzio sono stati peggiori delle altre due cose!”. A volte mi domando: quanta gente può dire lo stesso del vescovo che ha o del parroco? Quanta gente? No, senza libertà, senza paternità le cose non vanno.
Seconda parola – la prima era libertà –: creatività. Siete figli di una grande tradizione. La vostra esperienza religiosa trova il suo luogo sorgivo nella predicazione e nel ministero delle luminose figure dei santi Cirillo e Metodio. Essi ci insegnano che l’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato. La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede? Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane nel ricordo di un passato che non parla più e che non orienta più le scelte dell’esistenza. Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo cattivo, no, serve la creatività del Vangelo. Stiamo attenti! Ancora il Vangelo non è stato chiuso, è aperto! E’ vigente, è vigente, va avanti. Ricordiamo cosa fecero quegli uomini che volevano portare un paralitico davanti a Gesù e non riuscivano a passare dalla porta di ingresso. Aprirono un varco sul tetto e lo calarono dall’alto (cfr Mc 2,1-5). Furono creativi! Davanti alla difficoltà – “Ma come facciamo?... Ah, facciamo questo” –, davanti, forse, a una generazione che non ci crede, che ha perso il senso della fede, o che ha ridotto la fede a un’abitudine o a una cultura più o meno accettabile, cerchiamo di aprire un buco e siamo creativi! Libertà, creatività… Che bello quando sappiamo trovare vie, modi e linguaggi nuovi per annunciare il Vangelo! E noi possiamo aiutare con la creatività umana, anche ognuno di noi ha questa possibilità, ma il grande creativo è lo Spirito Santo! E’ Lui che ci spinge a essere creativi! Se con la nostra predicazione e con la nostra pastorale non riusciamo a entrare più per la via ordinaria, cerchiamo di aprire spazi diversi, sperimentiamo altre strade.
E qui faccio una parentesi. La predicazione. Qualcuno mi ha detto che in Evangelii gaudium mi sono fermato troppo sull’omelia, perché è uno dei problemi di questo tempo. Sì, l’omelia non è un sacramento, come pretendevano alcuni protestanti, ma è un sacramentale! Non è una predica di Quaresima, no, è un’altra cosa. È nel cuore dell’Eucaristia. E pensiamo ai fedeli, che devono sentire omelie di 40 minuti, 50 minuti, su argomenti che non capiscono, che non li toccano… Per favore, sacerdoti e vescovi, pensate bene come preparare l’omelia, come farla, perché ci sia un contatto con la gente e prendano ispirazione dal testo biblico. Un’omelia, di solito, non deve andare oltre i dieci minuti, perché la gente dopo otto minuti perde l’attenzione, a patto che sia molto interessante. Ma il tempo dovrebbe essere 10-15 minuti, non di più. Un professore che ho avuto di omiletica, diceva che un’omelia deve avere coerenza interna: un’idea, un’immagine e un affetto; che la gente se ne vada con un’idea, un’immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore. Così, semplice, è l’annuncio del Vangelo! E così predicava, Gesù che prendeva gli uccelli, che prendeva i campi, che prendeva questo… le cose concrete, ma che la gente capiva. Scusatemi se torno su questo, ma a me preoccupa… [applauso] Mi permetto una malignità: l’applauso lo hanno incominciato le suore, che sono vittime delle nostre omelie!
Cirillo e Metodio hanno aperto questa creatività nuova, lo hanno fatto e ci dicono questo: non può crescere il Vangelo se non è radicato nella cultura di un popolo, cioè nei suoi simboli, nelle sue domande, nelle sue parole, nel suo modo di essere. I due fratelli furono ostacolati e perseguitati molto, lo sapete. Venivano accusati di eresia perché avevano osato tradurre la lingua della fede. Ecco l’ideologia che nasce dalla tentazione di uniformare. Dietro il volersi uniformi c’è un’ideologia. Ma l’evangelizzazione è un processo di inculturazione: è seme fecondo di novità, è la novità dello Spirito che rinnova ogni cosa. Il contadino semina – dice Gesù –, poi va a casa e dorme. Non si alza per vedere se cresce, se germoglia… E’ Dio che dà la crescita. Non controllare troppo in questo senso la vita: lasciare che la vita cresca, come hanno fatto Cirillo e Metodio. A noi spetta seminare bene e custodire come padri, questo sì. Il contadino custodisce, ma non va lì a vedere tutti i giorni come cresce. Se fa questo, uccide la pianta.
Libertà, creatività, e infine, il dialogo. Una Chiesa che forma alla libertà interiore e responsabile, che sa essere creativa immergendosi nella storia e nella cultura, è anche una Chiesa che sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere “dei nostri”, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede. Non è selettiva di un gruppetto, no, dialoga con tutti: con i credenti, con quelli che portano avanti la santità, con i tiepidi e con i non credenti. Parla con tutti. E’ una Chiesa che, sull’esempio di Cirillo e Metodio, unisce e tiene insieme l’oriente e l’occidente, tradizioni e sensibilità diverse. Una comunità che, annunciando il Vangelo dell’amore, fa germogliare la comunione, l’amicizia e il dialogo tra i credenti, tra le diverse confessioni cristiane e tra i popoli.
L’unità, la comunione e il dialogo sono sempre fragili, specialmente quando alle spalle c’è una storia di dolore che ha lasciato delle cicatrici. Il ricordo delle ferite può far scivolare nel risentimento, nella sfiducia, perfino nel disprezzo, invogliando a innalzare steccati davanti a chi è diverso da noi. Le ferite, però, possono essere varchi, aperture che, imitando le piaghe del Signore, fanno passare la misericordia di Dio, la sua grazia che cambia la vita e ci trasforma in operatori di pace e di riconciliazione (…).