La lettera
“Io, tradizionalista, dico che sulla messa in latino Papa Francesco ha ragione”
Quando Bergoglio pone restrizioni sulle modalità delle funzioni lo fa con coerenza e incarnando l’ecclesiologia del Vaticano II dalla quale neppure Ratzinger si distaccò
Al direttore - È curioso doverlo ammettere – dal momento che, chi scrive, è da annoverarsi nella schiera di quanti vengono, più o meno propriamente, definiti “tradizionalisti” – ma Bergoglio, con Traditionis custodes, ha agito bene. La posizione del Summorum pontificum ratzingeriano del vetus e novus ordo quali “due usi dell’unico rito” era palesemente ossimorica: le due ecclesiologie che soggiacciono alle due messe sono antitetiche e incompatibili. L’ecclesiologia comunitaria veicolata dal Vaticano II, ponendo a fondamento la categoria di “popolo di Dio” e, dunque, esigendo le dimensioni collegiali ed ecumeniche, è chiaramente differente da quella precedente, ovvero di una chiesa nella quale l’autorità viene prima della comunità e la conversione prima del dialogo. E allora, se con la riforma liturgica di Paolo VI la chiesa si è data una nuova lex orandi per una nuova lex credendi, è impossibile che due lex orandi differenti possano rispecchiare un’unica lex credendi. Ecco perché, nel chiedere espressamente ai fedeli che intendano celebrare vetus ordo la chiara accettazione del Concilio, Traditionis custodes, dal suo punto di vista, ne ha pienamente diritto.
Ma le restrizioni per l’uso del vetus ordo all’interno della chiesa postconciliare sono ovvie anche perché se si ritiene che Paolo VI avesse autorità (e io non sono tra quelli) occorre riconoscere che con la costituzione apostolica Missale Romanum ebbe la netta intenzione di abrogare la Quo primum di Pio V: “Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle costituzioni e negli ordinamenti dei Nostri Predecessori”. E nel concistoro del 24 maggio 1976, Montini precisò: “Il nuovo ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio tridentino”. Perché ciò che vale per un papa del ’500 non può valere, se se ne riconosce l’autorità, per un suo successore del ’900? E infatti il Codice di diritto canonico, sia nell’edizione del 1917 che in quella riformata del 1983, precisa che “la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente”.
E ancora, per quale motivo Wojtyla, nel concedere limitatamente l’uso del messale del ’62, utilizzò lo strumento dell'indulto, che giuridicamente è l'esenzione dalla potenziale pena? Significa, evidentemente, che il messale precedente non era più “legale”. Quando Bergoglio pone restrizioni sulla “messa in latino” lo fa con coerenza e incarnando l’ecclesiologia del Vaticano II dalla quale, seppur dissimulando, neppure Ratzinger, riconoscendo il “valore e la santità” del nuovo rito, ovviamente mai si distaccò salvo promulgare un motu proprio illusorio. Con Francesco è tutto più chiaro: o di qua o di là senza un piede nel vetus e uno nel novus.
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