"Il Sinodo? Si badi più alla fede che alla sociologia". Parla mons. Camisasca
Avviato il percorso sinodale. Il vescovo di Reggio Emilia: "La Chiesa non ha bisogno di essere seducente"
"Le forme che la pastorale ha assunto dopo gli anni Sessanta hanno privilegiato gli uffici, i piani pastorali, la burocrazia. Tutto ciò ha avuto come risultato non solo una chiusura della Chiesa in se stessa, ma anche, agli occhi del mondo, l’identificazione dell’evento ecclesiale e della sua proposta con i problemi interni alla sua vita"
Il tempo dirà se il grande Sinodo sulla sinodalità inaugurato domenica 10 ottobre sarà un Vaticano III sotto mentite spoglie, se cioè dalla “base”, dal popolo di Dio infallibile in credendo emergeranno istanze che non potranno essere ignorate dall’episcopato una volta che si ritroverà riunito a Roma, nell’autunno del 2023. Prima di allora, però, si lavora in diocesi. Mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, aprendo il percorso locale, ha insistito sulla necessità di “aprire i confini della nostra tenda”. L’esortazione cioè a uscire davvero dalle chiese e dalle case per andare incontro agli altri. E’ forse questo, gli chiediamo, il rimedio a un ripiegamento che le comunità cristiane (e cattoliche in particolare, specie alle nostre latitudini) stanno ormai conoscendo da tempo? Come ridestare questo “desiderio incontenibile” di uscire verso gli altri?
“Tutto il pontificato di Papa Francesco si può raccogliere in un invito alla missionarietà”, risponde mons. Camisasca: “Almeno questo è ciò che io ho raccolto e rilanciato nella mia Chiesa. Tutto il resto mi sembra relativo a questo invito e deve essere giudicato da esso. Papa Francesco viene da terre lontane, che sono state evangelizzate cinque secoli fa e che hanno messo nel suo animo questa tensione alla testimonianza. È in quest’ottica che leggo il prossimo Sinodo dei vescovi e i cammini sinodali che hanno iniziato le chiese in tutto il mondo con maggiore o minore passione, con maggiore o minore consapevolezza. Non si tratta perciò di un invito nuovo, ma di una ripresentazione nuova delle parole conclusive di Gesù: ‘Andate, predicate e battezzate’. Non potrebbe essere diversamente. Cosa c’è di nuovo allora? Nulla? No, c’è molto di nuovo. Innanzitutto l’insistenza a uscire. Le nostre chiese sono spesso ripiegate su se stesse. Le forme che la pastorale ha assunto dopo gli anni Sessanta hanno privilegiato gli uffici, i piani pastorali, la burocrazia, la proliferazione dei ministeri. Tutto ciò ha avuto come risultato non solo una chiusura della Chiesa in se stessa, ma anche, agli occhi del mondo, l’identificazione dell’evento ecclesiale e della sua proposta con i problemi interni alla sua vita. L’esempio più clamoroso di questo è il dibattito attorno al diaconato femminile, come se aggiungere qualche presenza sull’altare rendesse più luminoso e affascinante il volto della Chiesa. Si è creata così una situazione paradossale: da una parte, l’indebolirsi della fede ha portato ad assumere sempre più la logica del mondo, a vedere la Chiesa come un’istituzione umana, dominata dalle logiche della maggioranza e della minoranza, del potere e della accondiscendenza al mondo. Dall’altra, ci si è sempre più allontanati dagli uomini e dalle donne, dalla loro vita concreta, dai loro desideri più profondi”.
È la novità di metodo proposta dal cammino sinodale, prosegue il vescovo: “Lasciare le nostre comode canoniche, andare verso le persone, accompagnarsi alle loro giornate, ascoltarle fino a cogliere la profondità della loro attesa e della loro domanda, oltre gli schemi soliti con cui abbiamo pensato il rapporto tra la Chiesa e il mondo. Sarebbe un cammino salutare. Saremo capaci di compierlo? Andare coraggiosamente incontro all’uomo (tra l’altro questo era già l’invito di san Giovanni Paolo II che egli realizzò con la pluralità dei suoi viaggi) – prosegue mons. Massimo Camisasca – implica una fede profonda e un cuore libero, un forte radicamento nella preghiera e nella vita sacramentale, una vita comunitaria serena e profonda. Non c’è missione senza comunione vissuta”.
Il Papa più volte ha detto che è necessario non confondere la Chiesa con una moderna democrazia, con un sistema costituito da maggioranze e minoranze. La storia più recente dei Sinodi, però – e lo vediamo ad esempio in Germania così come lo vedemmo in occasione del doppio Sinodo sulla famiglia – testimonia che le divisioni e la conta all’ultimo voto sono la prassi.
Come ci si può incamminare in un percorso che si ripropone di essere l’inizio di una nuova missione della Chiesa evitando di trasformare il Sinodo in una sorta di caotico Parlamento? Si può, risponde il vescovo di Reggio Emilia, “distinguendo radicalmente le logiche della sociologia dalle logiche della fede. Il Santo Padre ha richiamato più volte che il cammino sinodale deve avere come fondamento il sensus fidei fidelium, la coscienza di fede del popolo cristiano. Essa è come un fiume che attraversa i secoli, talvolta gonfio di acque, talaltra ridotto a un piccolo rigagnolo. Non si tratta perciò di cercare ciò che accontenta i più, ma di mettere in evidenza ciò che sempre la Chiesa ha creduto. Naturalmente riproponendolo alla luce delle nuove domande. Esse non potranno avere necessariamente delle risposte immediate o concordi. Non possiamo eliminare il lavoro del tempo come è stato necessario sempre, ad esempio per i concili. La bellezza della verità proposta da Cristo emergerà poco a poco, come da un’acqua mossa e torbida che, placandosi, diventa chiara e fa emergere i colori del fondo. La Tradizione non è un passato, ma è la contemporaneità della morte e resurrezione di Cristo al nostro tempo. Occorrono gli occhi della fede, come diceva Rousselot, amore alla verità, pazienza, ascolto reciproco, chiarezza di direttiva da parte dei pastori, coraggio di proposta, affidamento allo Spirito che guida la Chiesa”.
I rischi però ci sono. Ad esempio, non può esserci la tentazione di ridurre l’appuntamento sinodale a una mera inchiesta sociologica sullo stato della fede? “Il rischio c’è, come ho detto sopra. Spero ardentemente che venga evitato”. Torniamo al discorso inaugurale di Francesco, il Papa ha elencato diversi rischi: l’immobilismo, il formalismo, l’intellettualismo. Le chiedo: ma non c’è anche il rischio che l’assise sinodale divenga il luogo dove cercare a tutti i costi (e anche in modo forzato) “cose nuove” per rispondere alla crisi della fede, cercando così di rendere più “seducente” la Chiesa? “La Chiesa – dice mons. Camisasca – non ha bisogno di essere resa seducente. Il suo corpo è sì macchiato dai nostri peccati, ma queste macchie sono attraversate dalla luminosità di Cristo che si dona continuamente come Agnello sacrificato e risorto per la salvezza di ogni uomo. Egli non smette mai di purificare la sua Chiesa, di santificarla attraverso i sacramenti e di ripresentarla al mondo suscitando negli uomini quella povertà dello spirito che sa vedere il tesoro contenuto in vasi di creta – per usare l’espressione di Paolo – potremmo dire: nella miseria della nostra povera umanità”.
L’ultima domanda è sul Sinodo per l’Italia. Da più parti è stato detto che non era più procrastinabile, il presidente della Cei Bassetti ha parlato di “ora della rinascita”. Quali devono essere i primi e più urgenti punti all’ordine del giorno per ridestare la Chiesa italiana? “Non è iniziato un Sinodo per l’Italia, ma un cammino sinodale. Non è un gioco di parole. Un Sinodo è un evento legislativo, un cammino sinodale comporta invece tutte quelle tappe di avvicinamento alle persone, di ascolto, di annuncio e di allargamento delle tende della Chiesa di cui ho parlato all’inizio di questa intervista. Non si può andare incontro all’uomo se non si va incontro a Dio, se non si rinnova l’alleanza con lui, se non ci si pone in ascolto della sua Parola, se non si entra nella sua iniziativa. Cristo ci fa scoprire l’uomo, ma è anche vero che l’uomo ci fa scoprire Cristo. Andare verso i poveri, gli abbandonati, coloro che gridano nella loro solitudine porta ciascuno di noi dentro la sete di Cristo che brucia nell’attesa di ogni uomo. Don Dossetti mi ricordava, in occasione del suo 50° anniversario di ordinazione sacerdotale, che la frase che più lo aveva guidato era un’espressione dello Stabat Mater che anche don Giussani continuamente ci ripeteva: Fac ut ardeat cor meum in amando Christum Deum, ‘fa’ che il mio cuore bruci per l’amore di Cristo’”.
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