Dalla croce alla Realpolitik. Indagine sul “santo realismo” dei tre Papi
Il Vaticano come potenza politica: riflessioni a proposito del nuovo libro di Matteo Matzuzzi
"A ogni mutamento della situazione politica cambiano, a quanto pare, tutti i princìpi, meno uno: la potenza del cattolicesimo”: così scriveva Carl Schmitt nel 1923 in Cattolicesimo romano e forma politica. E questo perché, a suo avviso, non possono darsi opposizioni politiche, teologiche o sociopsicologiche che la Chiesa cattolica non riesca in qualche modo ad abbracciare, a mitigare, a combinare in un gioco costante di accomodamenti e intransigenze, di orgoglio e umiltà. Niente di strano dunque che tra i suoi fedeli, tra i suoi vescovi e tra gli stessi Sommi Pontefici, specialmente sul piano politico, prendano corpo posizioni diverse e spesso contrastanti fra loro. Eppure il dubbio che la persistente “potenza del cattolicesimo”, come la chiama Carl Schmitt, dipenda dalla capacità di adattamento alle situazioni storico-politiche più disparate rimane. Se è vero infatti che gli ultimi saranno i primi e che quindi i veri potenti della terra sono i poveri, gli ammalati, gli emarginati, i sofferenti, ciò significa che la parola “potenza”, quando viene riferita al cattolicesimo, non significa mai soltanto “potenza politica”. La Chiesa cattolica vive soprattutto grazie ai suoi santi, non grazie al suo potere politico. D’altra parte, però, essa non può essere nemmeno indifferente alla politica o rassegnarsi addirittura all’irrilevanza politica. E’ costretta piuttosto a tenere il piede in due staffe, con tutto ciò che la cosa comporta in termini di costante tensione tra il cielo e la terra, tra il regno di Dio e quello degli uomini.
Sta precisamente in questa tensione il motivo che rende spesso difficile parlare della Chiesa come di un semplice attore politico. Essa è certamente anche questo, ma non è mai soltanto questo. Di conseguenza quando se ne parla è richiesta una particolare duttilità e dimestichezza con la sua particolare natura, addirittura “mistica”. Esattamente quanto il lettore può trovare nel bel libro di Matteo Matzuzzi, uscito di recente presso le edizioni Luiss con un titolo a dir poco accattivante: Il Santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco.
Si tratta di un libro sulla politica internazionale di tre Papi, il cui merito principale, almeno secondo me, sta proprio nel far trasparire dall’azione politica di ciascuno di essi un differente orientamento non soltanto politico, ma anche ecclesiologico, diciamo pure una differente concezione del ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Si va dalla convergenza tra la politica internazionale di san Giovanni Paolo II e quella di Ronald Reagan, alla “diplomazia della verità” (invero assai poco diplomatica) di Benedetto XVI, per finire con la Realpolitik di Papa Francesco. Politica dunque. Ma, come mostra assai bene Matzuzzi, non soltanto politica. San Giovanni Paolo II, per fare un esempio, è stato sicuramente tra i principali protagonisti della caduta dell’impero sovietico, aveva sicuramente una notevole astuzia politica, vedi la nomina di Casaroli a segretario di stato, ma soprattutto aveva una chiara visione dello stretto legame tra Europa (dall’Atlantico agli Urali) e cristianesimo, per affermare la quale non ha fatto altro che parlare di libertà religiosa e di Gesù Cristo “redentore dell’uomo”. Lo stesso si può dire di Benedetto XVI. Anche lui facendo leva sulla libertà religiosa intesa ben oltre la semplice libertà di celebrare il culto ha cercato in tutti i modi di sottolineare il ruolo positivo della religione cristiana al servizio dell’uomo e della civiltà. Memorabile in proposito il discorso tenuto a Westminster Hall nel 2010. Di qui la sua linea di estrema chiarezza nei confronti dell’islam, senza preoccuparsi troppo dei malumori generati all’interno e all’esterno della Chiesa. Quanto a Papa Francesco, egli sembra muoversi su un altro piano sia per quanto riguarda la visione della Chiesa nel mondo, sia per quanto riguarda la strategia politico-pastorale. Se san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non hanno mai perso di vista il legame del cristianesimo con l’Europa, per Francesco sembra contare molto di più il legame con tutti i poveri del mondo, diciamo pure, con le periferie, le quali, Matzuzzi lo dice molto bene, diventano “meta, orizzonte dove ‘agire’ e ‘servire’ per tenere la Chiesa viva e non trasformarla in un museo pieno di polvere con fedeli ridotti a essere pietosi adoratori di cenere”. Il cambiamento di registro è ancora più vistoso se si considera la strategia politico-pastorale di Francesco. Tanto i suoi due predecessori sembravano intransigenti nella difesa, poniamo, della libertà religiosa, e tanto, dice Matzuzzi, egli “preferisce glissare, come dimostra la scelta negoziale con la Repubblica popolare cinese”: una sorta di Ostpolitik casaroliana adattata all’Impero celeste. Basta in sostanza con le culture war, con i princìpi non negoziabili, con “la croce come vessillo di lotte mondane” e avanti invece con i pontieri, con coloro che sanno restringere i fossati, senza mai perdere di vista gli ultimi.
Premesso che sarà il tempo il miglior giudice del “santo realismo” di questi tre Papi, premesso altresì che tutti i Papi si trovano per definizione a fare anche politica, a proposito della politica di Francesco non può non colpire il suo stile forse un po’ troppo politicienne. D’accordissimo ovviamente sul suo prendere le distanze da tutti coloro che vorrebbero utilizzare la religione cristiana come strumento di potere o come semplice marcatore culturale; una linea che peraltro era condivisa anche da san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; senz’altro profetico il suo gesto di recarsi in Iraq, nella terra dei martiri “più numerosi che nei primi secoli”, così come tanti altri suoi gesti assai bene documentati da Matteo Matzuzzi. Resta tuttavia il dubbio che nei suoi attacchi all’America (“per me è un onore se mi attaccano gli americani”), al mercato capitalistico, agli inquinatori del mondo o nei suoi rapporti con l’America latina e la Repubblica popolare cinese traspaia più una politica ideologica che la volontà di mettere il mondo davanti alla croce di Gesù Cristo.
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