Altro che processo del secolo, quello in Vaticano è uno show imbarazzante
il Promotore di Giustizia dovrà riprendere in mano gli atti, procedere con nuovi interrogatori, e forse perfino ridefinire i capi di accusa nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato. Ecco tutto ciò che non torna nell'inchiesta
“Al amigo, todo; al enemigo, ni justicia”. “All’amico tutto, al nemico nemmeno la giustizia”. Il vecchio adagio di Juan Domingo Perón si può benissimo applicare alla giustizia misericordiosa applicata nello Stato della Città del Vaticano, dove si sta celebrando un processo che sarebbe stato tutto da rifare, o perlomeno da annullare. Alla fine, si è deciso che è un processo da rifare solo in parte. La saga vaticana del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato continua, così, su due binari paralleli: da una parte, si continua con i procedimenti già avviati; dall’altra, dopo oltre due anni di “istruzione sommaria” autorizzata da Papa Francesco e condotta unilateralmente dagli inquirenti, senza adeguate garanzie per la difesa, si ricomincia da capo su diversi capi di accusa e per gli imputati principali. Così, il Promotore di Giustizia (il pm vaticano), per decisione del Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone, dovrà riprendere in mano gli atti, procedere con nuovi interrogatori, ed eventualmente perfino ridefinire i capi di accusa.
Dopo due anni di clamore mediatico, per i giustizialisti e colpevolisti della prima ora c’è ora il rischio che buona parte del processo si vada a sgonfiare, e che quello annunciato come “il processo del secolo” possa assumere il tono di un processo-show. E ci si deve chiedere quali saranno le conseguenze per la Santa Sede nel caso emergessero violazioni di diritti. Il “maxiprocesso”, ricordiamolo, riguarda diversi soggetti, il più in vista quali è il cardinale Giovanni Angelo Becciu, e vicende anche sconnesse fra di loro, ma che vedono al centro di tutto l’acquisto di un palazzo a Londra da parte della Segreteria di stato vaticana. Ed è già qui che nascono le domande. Perché il sostituto (numero due della Segreteria di stato, ndr) è sempre tenuto a riferire al Papa ogni atto di ordinaria amministrazione, e mons. Peña Parra, insieme al cardinale Pietro Parolin, segretario di stato, ha deciso e autorizzato l’acquisto dell’immobile. Il Papa non solo sapeva, ma sembra che sia persino intervenuto nelle negoziazioni successive all’acquisto di quell’immobile. Né Peña Parra né Parolin né altri soggetti coinvolti a diverso titolo in tutte le fasi delle operazioni sono tuttavia interessati dalle inchieste. Gli inquirenti sostengono che i superiori sono stati fuorviati da servitori infedeli. Quanto ai subordinati, invece, le sorti sono state disparate. “Al amigo, todo; al enemigo, ni justicia”, appunto.
Al di là delle accuse, colpisce il modo in cui si è arrivati al processo. Perché Papa Francesco ha autorizzato un procedimento sommario (fatto, cioè, senza garanzie processuali per le difese e senza passare per un giudice istruttore ) e poi ha stilato quattro diversi rescripta ex audientia SS. MI. che sono intervenuti direttamente sul processo e sulle indagini, concedendo un mandato in bianco ai pm vaticani, autorizzando la sospensione dell’applicazione di alcune leggi, consentendo intercettazioni senza una legge in materia, esonerando dalla considerazione del segreto d’ufficio e altro. Il primo di questi documenti è stato redatto il 2 luglio 2019, addirittura lo stesso giorno della denuncia dello Ior, quindi in assenza di qualsiasi indagine preliminare. A questo, si aggiungevano le sospensioni dal servizio senza seguire i regolamenti vigenti, una serie di interrogatori fatti senza che le persone sapessero nemmeno a quale titolo erano coinvolti nel processo; a perquisizioni in abitazioni private in suolo non vaticano da parte della Gendarmeria vaticana; a una serie di altre irregolarità procedurali che i difensori non avevano mancato di far notare. Fino al colpo di scena del 5 ottobre, con la richiesta del pm Diddi di riprendere in mano gli atti per ricominciare daccapo, le accuse di un “garantismo di ritorno” da parte degli avvocati e la salomonica decisione di Pignatone di rimandare al pm solo parte degli atti. Lanciando di fatto un segnale: l’impianto accusatorio è debole, vanno messe in discussione le indagini della Gendarmeria e il loro modo di condurle, nonché le tesi dei pm.
Ma chi potrà difendere l’immagine pubblica di Papa Francesco, promotore della dignità umana, se dovessero essere denunciate violazioni? Può l’ordinanza del Tribunale sanare le carenze strutturali del sistema giudiziario vaticano? E ancora: può l’ordinanza di Pignatone sanare i danni subìti dagli indagati e dagli imputati? Sono i dubbi degli osservatori internazionali, tra i quali Moneyval, il comitato di esperti antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, che non mancano di notare come il Vaticano usi codici obsoleti, non in linea con gli standard sui diritti dell’uomo e perfino applicati senza riguardo delle garanzie previste dal diritto canonico, prima fonte normativa in Vaticano. C’è ancora il Papa-re, e Papa Francesco, intervenendo nel processo, si è comportato da tale. Ma questo può essere controproducente. Perché anche se il pm rinunciasse alle sue tesi, di certo non saranno messe da parte le richieste risarcitorie da parte di coloro che sono stati ingiustamente accusati e comunque danneggiati. E così, la Santa Sede potrebbe avere oltre al danno, la beffa.
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