Il Dio con l'asterisco
Dalla Germania la richiesta di archiviare l'immagine del Padre vecchio, maschio e bianco. È l'ultimo assalto del politicamente corretto al cuore della fede
“Il tentativo di rendere (anche) la parola ‘Dio’ linguisticamente corretta esprime più una crisi dell’‘io’ che una crisi di Dio", dice il filosofo Costantino Esposito
Seicentomila giovani cattolici tedeschi, riuniti nella Katholische Junge Gemeinde, hanno avanzato ufficialmente la proposta di mettere un asterisco dopo la parola Gott, Dio. Perché è bene chiarire che Dio è uomo e donna insieme, vecchio e giovane, indistinguibile. Buono per tutti i gusti e per tutte le stagioni. Basta con la vecchia iconografia che lo vuole vecchio e con la candida barba, bianchissimo di carnagione e – perché no – pure con l’addominale ben definito. Il Dio di Michelangelo, insomma, va bene giusto per la Sistina. Per i musei e i libri di storia dell’arte, non per il nostro tempo che dispensa asterischi qua e là per non turbare chi magari non si riconosce nel sesso che madre natura gli ha donato, che ha inventato il titolo di “genitore A” e “genitore B” sui documenti perché padre e madre sono figure fuori moda. I giovani tedeschi pensano, legittimamente, che l’immagine di un “vecchio maschio bianco con la barba che punisce” sia antiquata e pure un po’ discriminatoria. Meglio adorare un “Dio della diversità”. Chiarimento previo: il tema non è certo nuovo, del sesso di Dio si è sempre discusso e di recente il gesuita americano James Martin ha scritto che “è più importante che Dio si sia incarnato come essere umano, più che come maschio”. E’ proprio questo il cuore del problema: il disagio che tra cattolici si avverte nel pregare un Dio investito d’un’aura patriarcale. Non è più neppure una questione di uomo/donna, qui si è oltre: va evidenziata e certificata la neutralità divina. All’autorevole periodico Tablet, l’assistente spirituale del gruppo, Rebekka Biesenbach, ha spiegato che “sempre più fedeli sono scoraggiati dall’immagine di un Dio maschio, patriarcale, bianco e lo stanno dicendo ad alta voce”. Dopotutto, aggiunge, “Dio può essere anche un’amica, una compagna o un amore”.
Giorgio Montefoschi, sul Corriere della Sera, ha scritto che non è che questi ragazzi abbiano poi tutti i torti: “Non occorre infatti la sapienza teologica di san Tommaso per sapere che Dio, inconoscibile con i nostri mezzi è al disopra. Non solo degli uomini, maschi o femmine che siano, ma dell’intero creato. E’ vero, i cristiani credono che il Figlio è a sua immagine e somiglianza. Però che sia una somiglianza che va al di là dei connotati fisici deve essere chiaro a tutti”. Non è questo il punto. Che Dio non sia un matusalemme con rughe, artrosi e lunga barba lo sanno anche i bambini che s’accostano ai sacramenti. Deus caritas est, scriveva Giovanni nella sua Prima lettera: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Amore che va ben oltre la mera distinzione sessuale, ovviamente. Il problema è che in discussione si mette il significato più profondo di Dio padre, cosa per altro confermata dalla stessa portavoce dell’associazione: “Padre” è una parola che non rappresenta più tutte le forme che possono esprimere il senso di Dio. Qualcuno ha subito tirato in mezzo Papa Giovanni Paolo I, che in uno dei suoi Angelus domenicali disse che Dio “è papà, più ancora è madre”. Non intendeva naturalmente discettare della sessualità divina, come è chiaro dal contesto della frase: “Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte”. “Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore”. Qui la questione è ben più complicata e delicata.
Il tentativo è quello di eliminare il Dio-maschio per sostituirlo con – appunto – un Dio della diversità; una divinità fluida e adattabile a ogni circostanza. Capace insomma di lasciare tranquille tutte le coscienze e tutte le anime. Una sorta di cyborg, insomma. Ha scritto sul Sussidiario don Federico Pichetto, esperto di patristica, parroco a Sestri Levante e insegnante di religione, che “il dato biologico non è soltanto qualcosa che mi costringe, un retaggio di un passato lontano che mi ingabbia, ma il punto di partenza dal quale posso iniziare a incontrare me stesso, le mie paure, i miei rifiuti, la mia libertà. Questo è ancor più vero se riferito a Dio: noi non incontriamo Cristo a partire da un pensiero, da un’idea, da una concettualizzazione convincente o da un’etica incontestabile, noi incontriamo Dio nel rapporto con la carne, con la realtà, con le membra del povero che sono la Sua Parola vivente. Se ai cristiani è tolta la carne, la carne che evangelizza e che continuamente rimette in discussione, ai cristiani è tolto Dio. O meglio: è lasciato un Dio che va bene per tutti e per tutte le stagioni. Un Dio ignoto, nascosto, lontano. Un Dio con l’asterisco”. Un appello, quello dei giovani tedeschi, che è stato respinto dai vescovi, benché con diverse sfumature e perfino con qualche giustificazione.
Il portavoce della Conferenza episcopale, Matthias Kopp, ha spiegato che “al momento il dibattito teologico sulla questione non è rilevante perché abbiamo a che fare con altri problemi che riguardano la Chiesa”. Un alt sì, ma non troppo convinto né esplicito. Comprensivo, invece, il responsabile per le Politiche giovanili dello stesso organismo, mons. Johannes Wübbe, vescovo ausiliare di Osnabrück: “E’ positivo che giovani cristiani vogliano discutere dell’immagine di Dio”. I tempi sono cambiati, “i giovani non possono immaginare Dio come un vecchio con una lunga barba bianca”. E Dio Padre? “Rivolgersi a Dio chiamandolo Padre aveva lo scopo di aiutare a descrivere l’essenza di Dio. Non si intendeva designare il sesso di Dio”. Qualche anno fa, una lettrice scrisse al settimanale Famiglia Cristiana domandando perché Dio si fosse incarnato in un uomo, Gesù, e non in una donna. Risposta: “Dio è oltre le differenze sessuali, perché è fuori del tempo e delle contingenze mondane. Quando però il Figlio si incarna, entra in questa differenza e non può che assumere una delle modalità in cui l’umano si esprime. Se si fosse incarnato al femminile, si sarebbe potuta avanzare la stessa obiezione dal punto di vista maschile. E allora, siccome la storia non si fa con i se e i ma, stiamo dentro l’evento, non alimentiamo inutili fantasie ispirate a machismo o femminismo, e lasciamoci guidare dalla tenerezza materna di Dio, incarnata in Cristo Gesù e vissuta nella madre Chiesa”. Che poi è quanto si legge nel Catechismo, quando s’afferma che “Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello: nessuno è padre quanto Dio”.
Ma perché un’organizzazione cattolica fatta da giovani, dinamica e propositiva, un bel giorno pensa di porre a tema l’asterisco da far seguire alla parola Dio? Liquidare la faccenda come una boutade d’autunno sarebbe non solo ingiusto ma pure pericoloso. Perché è indice che qualcosa, nel Popolo di Dio, si muove. Un fermento che a priori è sano, visto che conferma una certa attività intellettuale dei cattolici, generalmente considerati assopiti o sempre più indifferenti. In Germania tutto è in discussione, l’occasione è il celebre Sinodo “vincolante” che preoccupa Roma (a cominciare dal Papa) e che dibatte su potere clericale, ordinazione delle donne e ruolo del sacerdote. Capire il perché possa venire in mente di posporre a Dio un asterisco serve per non risolvere la questione bollando la proposta come provocazione di mezza stagione non degna di considerazione. E se fosse il prodotto, l’ennesimo, di quest’epoca segnata dal crollo di tutte le evidenze che si ritenevano immodificabili e “sicure”? Di certo lo Spirito dei tempi incide parecchio, tra alfabeti schwa e toilette tripartite, ma probabilmente la proposta della Katholische Junge Gemeinde conferma che, probabilmente, qualcosa nella trasmissione dei “fondamentali” della fede si è perso o che, quantomeno, è confuso.
“C’è una domanda che si impone di fronte a una posizione come questa, e cioè: da quale esperienza nasce questa diversa ‘immagine’ di Dio, o meglio questa riformulazione di Dio come il nome stesso della ‘diversità’?”, dice al Foglio Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Bari. “Certo – aggiunge –, il Dio della tradizione teologica e filosofica cristiana è il Dio trascendente – ‘altro’ o addirittura ‘totalmente altro’ dal mondo – che nel mondo crea qualcuno, l’essere umano, a sua immagine e somiglianza. L’infinita distanza diviene al tempo stesso una sorprendente vicinanza, la trascendenza si lascia scoprire come immanenza. Pensiamo a come, secondo Agostino, è proprio l’io umano, quello che egli chiama l’abisso dell’umana coscienza, il luogo in cui si rivela in maniera più evidente – e al tempo stesso più misteriosa – la presenza del ‘Tu’ divino. Ma questa vertiginosa scoperta del nome e del significato di Dio è potuta avvenire solo grazie a un’esperienza storica particolare, quella dell’elezione e della promessa del popolo ebraico e quella dell’avvenimento storico, scandalosamente temporale, circostanziale, carnale di un Dio divenuto uomo nella persona di Gesù. Una delle chiavi principali con cui la nostra cultura ha potuto pensare il concetto ‘universale’ di Dio sta in un’esperienza storica particolare. Quell’esperienza per cui Paolo ha potuto scrivere che ‘non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù’ (Gal 3, 28)”. Inoltre, spiega Esposito, “il puro concetto di Dio, la cui esistenza era peraltro già dimostrata dalla ragione filosofica, fa irruzione nel tempo con un volto umano, un volto che si può vedere, toccare, sentire sensibilmente. E questo cambia radicalmente la situazione: il concetto diventa una carne. Il punto critico allora è capire che cosa è successo per cui il nome di Dio è tornato a essere un concetto fungibile in senso generico, perdendo la sua storicità effettiva, e ritornando nel regno dell’indeterminato universale. Dio diventa il nome di un ‘genere’ – il ‘divino’, appunto – la cui ‘dimostrazione’ non è più affidata all’analisi concettuale ma alla critica dei simboli antropologico-culturali. Diventa il nome per giustificare nuovi modelli, pensando che questa operazione renderà nuovamente interessante quel nome. Senza accorgersi tuttavia che probabilmente esso già non interessa più come un fattore reale dell’esperienza. Non è più un ‘altro’ che accade risposta sorprendente al nostro desiderio, come grazia irriducibile donata al nostro irriducibile ‘io’, ma solo il nome di quello che possiamo e sentiamo dover fare da noi. La domanda è: può ancora essere attrattivo un Dio concepito o immaginato in questo modo a nostra immagine e somiglianza?”.
Più che pensare a rivoluzioni epocali che vanno dalle diaconesse alle sacerdotesse, bisognerebbe far suonare l’allarme circa le basi del credere cristiano. Magari con un sano ripasso su chi è l’oggetto del credere. Anche di questo dovrebbero occuparsi i sinodi e i vescovi nel loro lavoro quotidiano. Un tempo, quando il rito cosiddetto antico era la norma, si diceva che le madri di famiglia devote non capendo nulla di quel che mormorava il prete in latino, oltretutto dando le spalle al popolo, sgranavano il Rosario. Oggi, che tutto appare chiaro e a portata di credente “semplice”, c’è chi pensa agli asterischi politicamente corretti. “Il tentativo di rendere (anche) la parola ‘Dio’ linguisticamente corretta – un tentativo nato probabilmente dalla buona intenzione di ‘salvare’ questa parola dalla cultura di un occidente che se ne è impadronito e lo ha progressivamente ridotto – a mio parere esprime più una crisi dell’‘io’ che una crisi di Dio”, osserva ancora Costantino Esposito. “Anzi – aggiunge – si potrebbe anche affermare che si cerca di riappropriarsi di questa parola proprio per una mancanza di certezza su ciò che si vive. C’è bisogno quasi di ricorrere a una ‘forma’ divina per riempire o coprire il dramma strutturale di ogni gesto umano, quando emerge l’impossibilità di compiersi da sé o di bastare a sé stessi. Un Dio che torna a essere ‘natura’, secondo tutte le forme che questa può assumere o con cui può essere percepita. Un farmaco tranquillizzante, come direbbe Nietzsche, per non cadere nel nulla di senso che è sempre in agguato nella nostra vita. L’uomo di fede o l’ateo gridano a Dio – per invocazione o per protesta, spesso per entrambe le cose –; qui invece si vuol tornare a Dio per normalizzare quel grido, per attutirlo. Dio è quel che immaginiamo debba essere la nostra vita”.
Come s’è visto, non è tanto la questione di una legittima riflessione teologica sulla maternità divina – gli studi sul tema sono molteplici, con dotti riferimenti alle Scritture – bensì trattasi di una moderna pruderie dove tutto si vorrebbe uniformato e uguale, superando il concetto stesso di uomo e donna. Il filosofo Fabrice Hadjadj ha scritto sull’ultimo numero della rivista Vita e pensiero che “quando la differenza dei sessi è minimizzata, si attenuano anche le differenze tra le generazioni, tra i popoli, tra l’uomo e la bestia, tra l’animale e la macchina, tra i mortali e gli dei. La negazione della differenza sessuale, o l’affermazione di cinque generi e più lungi dal portare a una maggiore diversità è una pulsione regressiva e non può che immergerci in una totale indifferenza”.
Vangelo a portata di mano