Gli auguri di Papa Francesco alla curia: "Siamo lebbrosi da guarire"
Tradizionale discorso natalizio del Pontefice ai membri del governo vaticano. Parola chiave è "umiltà", contrapposta alla superbia
Nessun accenno alla riforma della curia in gestazione da quasi nove anni. Parole sul Sinodo avviato lo scorso ottobre: "La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci inannzitutto noi che siamo qui"
“Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù”, “per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà e non altri signori nella loro vuota opulenza”. E’ la chiosa del discorso tenuto da Francesco alla curia romana, tradizionale appuntamento dicembrino per “la presentazione degli auguri natalizi”, ma che dal 2013 più che dalle dolci melodie delle festività è accompagnato dalle tetre note di colonne sonore à “Lo Squalo” di Steven Spielberg. Ogni anno, infatti, il Papa confessa cardinali e arcivescovi lì convenuti, accusandoli d’essere una volta mondani, un’altra malati di Alzheimer spirituali, un’altra ancora ponendoli davanti al bivio: “Volete seguire Gesù o Erode?”.
Stavolta ha parlato di “lebbra”, osservando che “Non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale”. Bisogna stare attenti, ha sottolineato, alla “pericolosa tentazione della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità”. Serve umiltà – parola chiave del discorso, ripetuta più volte – e “tutti sappiamo che il contrario dell’umiltà è la superbia”.
Vanno bene le radici e la Tradizione per riportare “al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti”, ma “affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, abbiamo bisogno di un altro verbo: generare. L’umile ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato perché ha perso la memoria”. L’umile, ha detto il Papa, “accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza”. Uscire, insomma, anche perché “se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’Apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti”.
Tutti, rimarca Francesco: “Non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire”. Se il Pontefice non ha menzionato la riforma della curia, in gestazione da otto anni e mezzo tra bozze, correzioni e riscritture varie, ha parlato invece del processo sinodale avviato lo scorso ottobre: “La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella curia romana”. Tre sono le parole chiave: partecipazione, comunione e missione, che “sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa”. Ricordando che “tutti noi siamo dei lebbrosi bisognosi di essere guariti. Tutti”.
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