covid e fede
Il Natale oltre la paura
È necessario risolvere l’equivoco sul significato della parola credere e individuare la vera natura della malattia: la perdita di senso del vivere
Oggi decine di luci verdi (semaforo di via libera a un sogno di libertà) baluginano nel buio dei boschi tra la Bielorussia e la Polonia, accendendo la speranza di centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini ormai allo stremo. Duemila anni fa, un insolito chiarore penetrò nella notte. Con la forza di una promessa accese la speranza dei pastori e li destò dal loro sonno leggero, mentre custodivano il gregge addormentato. Quale nesso tra il Natale di Gesù e l’aspirazione ad una nuova nascita di milioni di migranti in diversi continenti? Il cuore dell’uomo è indomabile e non si stanca di cercare la liberazione, mettendosi in movimento e lottando fino alla fine.
Chi lotta per la speranza (San Paolo, Rm 5,3-4 “… noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”) riscuote sempre la stima di molti settori di umanità. Al di là dei dibattiti accesi e troppo spesso “tra sordi”, donne e uomini, giovani e vecchi si spendono per accogliere i migranti e aiutarli a trovare il loro posto nei paesi più ricchi. Ridanno speranza a queste persone provate, ma la ridanno anche a noi, garantendo, in prospettiva, una possibilità di rigenerazione ai nostri popoli del nord occidente opulento del pianeta. Il nesso appare chiaro: è l’amore che il Dio Amore continua a donare ad un’umanità stanca quando non del tutto estenuata.
L’Amore di Dio cui fa riferimento l’homo religiosus continua indomito ad intercettare il bisogno dei singoli e dei popoli. Bisogno di compimento che le prove della vita lungi dallo spegnere finiscono sempre per acuire. Le attese del cuore umano sono costitutive. Si può tentare di seppellirle sotto i detriti che si vanno accumulando lungo l’esistenza. Ma non si possono sradicare. Rispuntano sempre, per finire, anche se sepolte sotto i terrains vagues del nostro cammino.
Lo vediamo bene in questo doloroso tempo di pandemia, ove tutti, al di là dell’opposizione tra pro vax e no vax sono dominati dal sentimento umanissimo della paura. La politica, con vari mezzi, tenta giustamente di tenerla sotto controllo, ma essa è come l’acqua: se cerchi di trattenerla con le mani ti sfugge da tutte le parti. Proprio come succede per l’amore. Per questo solo l’amore è l’antidoto contro la paura. Aver paura del contagio è diventato lo stato d’animo abituale, una condizione costante dei pro vax. Ma anche i no vax sono dominati dalla paura delle conseguenze dei vaccini. Può essere questa la cifra adeguata per affrontare una prova tanto radicale, la cui durata ci è ancora ignota? Non rischiamo in questo modo di trasformare un sintomo (la paura) in malattia?
Quale strada percorrere per non farci intrappolare dalla paura? Individuare con serena consapevolezza la vera natura della malattia. Essa si manifesta con sempre maggior chiarezza. E’ la perdita di senso della realtà e quindi del vivere. O almeno la confusione circa questa millenaria via – la ripresa del senso – per accedere, pur con tutte le fragilità e contraddizioni, al compimento di sé e alla rigenerazione di “un popolo ben disposto” (Lc 1,17). A partire dalla modernità la questione del senso è stata in diversi modi rimossa. L’itinerario della secolarizzazione sta lì a mostrarcelo.
Il poderoso studio di Taylor ne analizza l’evoluzione, ma ognuno di noi lo percepisce dall’interno della sua esperienza. Caduto l’universale concreto, cioè la possibilità che “un singolo” (Gesù Cristo) sia il senso del tutto, siamo ormai pervenuti ad un nichilismo che, se all’inizio, richiamandosi a Del Noce, poteva essere qualificato “gaio”, ora è ormai divenuto dispotico e cortesemente violento. Per documentarlo basterebbe prendere in considerazione il modo di declinare i cosiddetti diritti del soggetto.
“Conosci te stesso” ammoniva la saggezza greca. Per far questo non si può rinunciare ad accogliere, dentro ogni circostanza e ogni rapporto, quella “X” con la maiuscola che le grandi tradizioni religiose hanno sempre indicato con il nome di Dio. E’ fuori dubbio: si tratta di credere in Dio. Nel mondo di oggi è passata di moda persino la più inconsistente obiezione al credere: “Beato te che hai avuto il dono della fede, io purtroppo non ce l’ho”. Come se l’iniziativa di Dio non fosse di donarsi a tutti…! Certo tu la puoi e la “devi accogliere” (Kierkegaard).
Per lasciarsi alle spalle la paura bisogna togliere di mezzo l’equivoco corrente circa il significato della parola credere. Possiamo per questo partire da una delle affermazioni oggi più diffuse a sostegno delle nostre poche certezze sulla pandemia. Occorre “credere nella scienza” è il mantra continuamente ripetuto da tutti. Certo nei dati rigorosamente raccolti e obiettivamente riconosciuti dalla comunità scientifica e soprattutto efficaci, bisogna “riporre fiducia”. E la fede domanda sempre fiducia.
Ma l’aver fiducia non copre tutto l’ambito del credere. Il mero aver fiducia conduce al massimo alla credenza che, in sé e per sé, è troppo labile. Da Popper in avanti si è progressivamente accertato che la scienza non procede per verifiche ma solo per falsificazioni. E il caso del Covid è lì a dimostrarcelo.
La scienza, diceva la mia professoressa di matematica e fisica al liceo, è come una rete gettata in mare che piglia un certo numero di pesci a seconda della larghezza o meno delle sue maglie. Affermare che la scienza procede per falsificazioni significa riconoscere che usando una rete a maglie più strette si piglieranno più pesci e questo chiederà di abbandonare la rete precedente. Il metodo scientifico così individuato rappresenta certamente un grande guadagno per la civiltà contemporanea. Nel caso della pandemia offre vie pratiche per contenerla.
Perché allora non toglie la paura? Perché non può offrire un punto di stabilità permanente che consenta un uso compiuto della libertà. La libertà per muoversi ha bisogno di un senso totale (significato e direzione) entro il quale gli apporti della scienza non solo mantengono ma approfondiscono il loro contributo.
Su cosa puntare allora per vincere il subdolo nemico della paura?
Sul senso compiuto della vita. Per il fatto stesso di esistere ogni uomo ha bisogno di essere cercato ed accompagnato da chi non viene mai meno. “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Osea 11,4). Di questi tempi c’è nostalgia di questo tipo di amore.
Il Natale del Signore ha a che fare con questo tipo di amore, anzi è proprio questo tipo di amore. Charles Péguy lo descrive con parole luminose: “Mio Figlio, dice Dio, è stato un tenero bambino, un lattante, un’infanzia, un germoglio, una promessa, un combattimento, un tentativo, un inizio di redentore, una speranza di salvezza, una speranza di redenzione”.
Indomabile il Covid, ma più indomabile l’evento del Natale.
*Angelo Scola, cardinale arcivescovo emerito di Milano
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