Michelangelo Buonarroti, Creazione di Adamo (foto Wikimedia Commons)

Dio, il caso, l'uomo. Una sfida eterna

Camillo Ruini

Nel suo ultimo libro, Roberto Volpi si pone le due domande fondamentali che stanno, o almeno dovrebbero stare, al centro del nostro interesse. La prima è la domanda su Dio, la seconda è la domanda sull’uomo

"Dio nell’incerto” (Leg edizioni) è il titolo del libro dello statistico Roberto Volpi, pubblicato a fine 2021, che ho letto con grande attenzione e piacere. L’autore si pone le due domande fondamentali che stanno, o almeno dovrebbero stare, al centro del nostro interesse. La prima è la domanda su Dio, la seconda è la domanda sull’uomo, alla quale allude il sottotitolo del libro: L’altra scommessa di Sapiens.

L’approccio a entrambi i problemi è anzitutto quello dello statistico, cioè la valutazione delle probabilità. Volpi si collega quindi alla celebre scommessa su Dio proposta quattro secoli fa da Blaise Pascal, aggiornandola al contesto attuale, con le sue enormemente accresciute conoscenze scientifiche. Sceglie inoltre come interlocutore preferito Joseph Ratzinger, il Papa emerito, rilanciando, “senza partigianerie”, la grande sfida tra creazione ed evoluzione, tra Dio e il caso. La prima parte del libro, “Scommettere sull’origine del mondo”, e la “Conclusione” sono dedicate alla domanda su Dio, le parti seconda, terza e quarta alla domanda sull’uomo.

Nella prima parte e nella conclusione oltre che di Dio Volpi parla della teoria della probabilità che ha avuto origine dalla pratica dello scommettere, principalmente a opera di quel grande filosofo e matematico che era Pascal. Applicandola a Dio Pascal getta le sue “fondamenta culturali più profonde”, ne fa una disciplina e una scienza, la immette in una dimensione filosofica che non avrebbe assunto se fosse rimasta circoscritta al calcolo combinatorio.

Un altro merito di Pascal è aver intuito che non è possibile calcolare le probabilità di vincere se non si sono calcolate prima le probabilità di perdere. Anche esistenzialmente bisogna accettare fino in fondo l’incertezza, la probabilità di perdere, se vogliamo coltivare la speranza di vincere. La probabilità è la scienza, il metodo scientifico che accetta l’incertezza. In un mondo sempre più complesso, nel quale il territorio del probabile è molto più esteso di quello del certo come di quello dell’impossibile, la probabilità è il metodo più efficace e indispensabile, il solo che consenta di arrivare a risultati completi e coerenti.

 

Tornando alla domanda su Dio, Pascal parte da due assunti: l’esistenza come la non esistenza di Dio non può essere provata dalla ragione umana, per il fatto stesso di vivere l’uomo è costretto a scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se non ci fosse. Questo anche quando crede di non scegliere, perché credere di non scegliere equivale a scegliere di non credere. Sempre secondo Pascal, bisogna puntare sull’esistenza di Dio perché se si vince si guadagna tutto, cioè un’infinità di vita beata, se si perde non si perde nulla. Quest’ultima affermazione è stata molto criticata ma, a parere di Volpi, Pascal giudica che non ci sia niente da perdere “secondo il metro delle sue idee morali, della sua coscienza”.

Vediamo ora come Volpi aggiorni la scommessa di Pascal. L’incertezza prima e fondamentale riguarda la domanda: come è nato il nostro universo? Per rispondere non si può che partire dal Big Bang, ma subito si presenta l’altra domanda: come è nato il Big Bang? Su questo non sappiamo e non potremo mai sapere nulla di accertabile scientificamente, possiamo solo formulare delle ipotesi, delle congetture. Attualmente la meno improbabile è l’ipotesi quantistica, ma ve ne sono altre e tutte rimarranno per sempre solo ipotesi. Oltre a queste c’è quella che possiamo chiamare “l’ipotesi Dio”, anch’essa certo al di là della scienza, anzi, ancor più fuori dalla scienza, perché sull’ipotesi quantistica e sulle altre si possono formulare teorie, congetture e valutazioni scientifiche, sull’ipotesi Dio non si può.

Perciò la grande maggioranza della comunità scientifica esclude l’ipotesi Dio ma, osserva Volpi, le cose non stanno così. Ragionando su cosa c’era prima del Big Bang dobbiamo infatti per forza addentrarci sul terreno della probabilità, sia l’ipotesi quantistica (e le altre di tipo scientifico) sia l’ipotesi Dio possono essere valutate solo in termini probabilistici, con gli strumenti approntati da quella scienza che è la probabilità. Di più, l’ipotesi Dio da questo punto di vista si farebbe nettamente preferire, perché è pienamente definita in se stessa e non ha bisogno di legarsi a delle sottoipotesi, mentre l’ipotesi quantistica ha bisogno di tante sottoipotesi, ciascuna delle quali è altamente improbabile.

In realtà, però, non si potrà mai arrivare a sapere quale delle due ipotesi risulti vincente, essendo entrambe non verificabili. Quindi nessuna scommessa è fattibile. O meglio, conclude Volpi, una scommessa si può sempre fare ed è quella di Pascal, una scommessa il cui allibratore e giudice è la nostra coscienza: molto sul piano morale, niente sul piano scientifico.

 

Poi il discorso ritorna su Joseph Ratzinger, che ritiene di poter dimostrare non l’esistenza ma la “ragionevolezza” di Dio. Ratzinger ha l’intelligenza di spostare i termini del discorso: della ragionevolezza di Dio chiunque può discutere, anche chi non ha fede, perché essa si manifesta nel corso della storia. Infatti, non appena si fa strada l’idea di Dio tutto l’immenso bagaglio dei miti fondativi politeistici crolla come un castello di carte: viene smentito dalla semplicità e razionalità del racconto biblico della creazione, che riconduce il mondo e l’uomo alla ragione e alla parola di Dio. E’ questo “l’illuminismo” decisivo della storia, che consegna il mondo alla nostra ragione e àncora questa ragione alla ragione creatrice di Dio.

Volpi termina osservando che da quando Ratzinger ha lasciato la cattedra di Pietro il richiamo alla ragionevolezza di Dio si è appannato, ha perso vigore nella Chiesa. Ma forse proprio in questo richiamo c’è qualcosa che può rimettere in discussione gli schemi dell’eterna partita tra credenti e non credenti, allargando la platea di quanti guardano con rispetto e considerazione al “sacro” senza per questo ripudiare il “secolo”.

Personalmente non posso che apprezzare questi discorsi. Uniscono al rigore scientifico una grande apertura d’animo e manifestano una chiara simpatia per l’approccio cristiano al problema di Dio, come è mediato oggi da Joseph Ratzinger. Impiegano per questo la logica della probabilità, attualmente assai importante, con un sostanziale aggiornamento rispetto a Pascal.

 

In questo spirito propongo qualche considerazione riguardo alla domanda su Dio. Per Volpi come per Pascal l’ipotesi Dio, o più semplicemente l’esistenza di Dio, non può essere provata dalla nostra ragione. Questo è sicuramente vero finché si tratta della scienza, della ragione scientifica. Se invece ci riferiamo ad altri impieghi della ragione, ad esempio alla ragione filosofica, e anzitutto alla ragione tout court, cioè a quella capacità di conoscere che ci distingue dagli altri animali, la cosa non è più pacifica: al contrario, è stata e continua a essere oggetto di un grande dibattito. La Chiesa stessa, in particolare nel Concilio Vaticano I del 1870 e poi anche nel Vaticano II, ha preso posizione affermando che Dio “può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create”. Del resto questo era già il pensiero di san Paolo nella Lettera ai Romani.

Sarebbe tuttavia profondamente sbagliato vedere qui una totale contrapposizione. Nei medesimi Concili si precisa infatti che nella presente condizione del genere umano non basta la ragione ma si richiede la rivelazione divina affinché l’esistenza di Dio possa essere conosciuta da tutti con ferma certezza e senza mescolanza di errori. In realtà non possiamo trattare Dio come un oggetto tra gli altri, come qualcosa che possiamo dominare con la nostra ragione. La certezza riguardo a Dio è profondamente diversa da ogni certezza riguardo al mondo: per raggiungerla dobbiamo mettere in gioco noi stessi, non solo la nostra ragione ma la nostra libertà e le nostre scelte di vita. E’ una certezza razionale ma anche libera per la quale è decisivo assumere un atteggiamento di “ascolto umile”, come ha sottolineato Joseph Ratzinger. Una certezza, lo dico da credente, per la quale Dio opera dentro di noi.

Seguendo ancora Ratzinger, ritengo valido il secondo assunto di Pascal, che cioè siamo costretti a scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se non ci fosse: l’agnosticismo, infatti, può essere sostenuto teoricamente ma in pratica non esiste, riguardo a Dio, un reale spazio di neutralità, per il motivo già addotto da Pascal.

Finora ci siamo occupati della domanda su Dio, vediamo ora come Roberto Volpi risponda all’altra grande domanda, quella sull’uomo: le sono dedicate le parti seconda, terza e quarta del libro  “Dio nell’incerto. L’altra scommessa di Sapiens”. Il discorso è assai più lungo e articolato che per la domanda su Dio, sarò quindi costretto a procedere in modo più selettivo.

All’inizio troviamo un’importante precisazione: mentre la scienza non può dire niente di certo sul prima del Big Bang, riguardo alla vita e all’uomo ha invece molto da dire. La questione è se siano interamente accettabili le tesi dell’evoluzionismo neodarwiniano.

Volpi sceglie di nuovo Ratzinger come interlocutore preferito. Non convince Ratzinger l’idea che la vita, e in particolare l’uomo, non siano altro che il prodotto di errori casuali nei processi di riproduzione, sottoposti poi al vaglio della selezione naturale. Volpi osserva che l’evoluzione ha certamente il suo motore in tali errori, ma il neodarwinismo non ha approfondito a sufficienza il modo di operare del caso. Non esiste cioè un caso indifferenziato che operi a prescindere da tutto il resto. Il caso è condizionato dallo “stato della vita in essere”, cioè dalla quantità e qualità dei viventi sul nostro pianeta. Una stessa mutazione casuale può essere del tutto improduttiva o invece grandemente utile a seconda del terreno su cui cade e del quando vi cade. Mutazioni casuali e selezione naturale spiegano l’evoluzione interna alle singole specie ma non i grandi salti di specie, che si sono verificati specialmente nel Cambriano, oltre cinquecento milioni di anni fa.

 

Venendo a quel che ci riguarda più direttamente, il genere Homo è stato certamente beneficato da mutazioni casuali che hanno migliorato il suo apparato fonatorio e noi Sapiens abbiamo per questo un apparato fonatorio perfetto, ma il caso ha potuto contribuire a questi risultati solo grazie alla stazione eretta propria ed esclusiva delle diverse specie di Homo, e in particolare grazie alla stazione perfettamente eretta di Sapiens. Perciò il nostro linguaggio è molto più progredito di quello delle altre specie di Homo, mentre gli scimpanzé, i primati a noi più vicini con i quali abbiamo in comune oltre il 98 per cento del Dna, non avendo la stazione eretta non hanno e non potranno mai avere un vero linguaggio, un linguaggio di parole. A parere di Volpi “è la stazione eretta che fa l’uomo”, nel senso preciso che lo crea e lo struttura per quello che è.

Sempre in virtù della stazione perfettamente eretta già da molte migliaia di anni i Sapiens hanno davanti al loro sguardo “un cono degli eventi” estremamente rispondente alle loro necessità di lettura e interpretazione dell’ambiente. Hanno quindi ben maggiori informazioni da elaborare, immagazzinare e categorizzare, oltre che da mettere in comune per mezzo di quell’efficacissimo tramite che è il linguaggio. Così il loro cervello è diventato enormemente più articolato, complesso e plastico.

A motivo della stazione perfettamente eretta possiamo inoltre vedere il cielo in modo naturale e continuo. Sentiamo così “l’altrove” che ci sovrasta e ci interroga. Il cielo ci suggerisce un modo di rivolgerci al mistero, all’incomprensibile: l’invocazione, la preghiera. Ratzinger porta tutto questo all’estremo: per lui ciò che distingue l’uomo dall’animale è la capacità di pensare Dio e di pregare. Di fatto, senza una visione del cielo naturale e continua non è possibile concepire Dio, pensarlo e pregarlo. L’“uomo religioso” fa così la sua comparsa. La “costruzione dell’anima” parte dal sorgere e dal maturare del sentimento religioso che implica l’idea, la scoperta che nell’uomo non c’è solo la materialità ma c’è anche un’altra dimensione, spirituale, trascendente.

Nonostante tutto questo la superiorità di Sapiens continua a essere ampiamente negata: non ci sarebbe alcuna differenza fondamentale, qualitativa, ma solo quantitativa tra la nostra mente e quella degli animali. Alla base di questa negazione c’è, per Volpi, una pesante sottovalutazione sia della stazione eretta sia della capacità di abbracciare sempre l’intero cono degli eventi. Si dimentica inoltre che, superato un certo livello, la quantità diventa qualità. La quantità di informazioni processata da Sapiens non ha paragoni: per questo solo Sapiens è in grado di pensare in modo astratto e simbolico, ha piena coscienza di sé nel mondo.

 

La mente umana non è dunque una variante della mente animale: è “tutta un’altra mente”. Ci siamo spinti tanto avanti nell’evoluzione culturale da aver praticamente azzerato l’evoluzione biologica. Il successo del Sapiens moderno è strepitoso: basti pensare che siamo 7,8 miliardi di individui diffusi ovunque sul nostro pianeta. Sapiens è l’ultima, più complessa e più intelligente specie di Homo. Non si può negare pertanto la sua unicità, anche nel senso della sua solitudine: siamo la specie con la quale il genere Homo concluderà quasi certamente il suo percorso. Di questo nessuno dubita ma stranamente quasi nessuno parla, a causa della sottovalutazione sia di Sapiens sia di Homo. Che ne sarà, si chiede Volpi, dell’intelligenza e della coscienza maturate dalla nostra specie? Una delle risposte fa riferimento a civiltà extraterrestri.

Dobbiamo vedere dunque se tali civiltà esistano. Finora tutte le ricerche, condotte con strumenti sempre più potenti, non hanno prodotto alcun risultato e tuttavia la grande maggioranza degli scienziati ritiene che ci siano nell’universo, forse infinito, molte civiltà extraterrestri. Se però limitiamo il discorso alla nostra galassia questa maggioranza diminuisce. Volpi è molto più prudente: per lui, dato che non sappiamo neppure come sia cominciata la vita, è ben strano pretendere che la vita possa facilmente arrivare a intelligenze come la nostra, o anche superiori. E’ dunque probabile, o almeno possibile, che nell’intero universo non ci siano, oltre a noi, altri individui dotati di pensiero astratto e simbolico.

Mai come oggi siamo stati critici verso il genere umano, pensiamo di essere la rovina della natura, che di per sé sarebbe buona. Ma, come ammonisce Ratzinger, questa concezione non è cristiana: Dio ha creato la natura per noi e senza di noi essa non ha speranza. Certo, il nostro comportamento è spesso sbagliato, miope e dannoso per il creato, ma l’uomo, al fondo di sé, sa che la terra è la sua casa e tende a proteggerla. Saremo all’altezza di questo compito? Potremmo fare una scommessa su noi stessi: i pessimisti, che addebitano all’uomo perfino i danni prodotti dai terremoti e dai virus, puntando sul no, i moderatamente ottimisti, come lo stesso Volpi, puntando sul sì.

Quanto a me, l’apprezzamento che ho espresso riguardo al modo in cui Volpi risponde alla domanda su Dio rimane integro, se non aumentato, per la risposta alla domanda sull’uomo. Nei limiti delle mie scarse competenze, mi sembra convincente la tesi che il caso è molteplicemente condizionato, con tutte le conseguenze che ne derivano. Mi ha poi colpito il sano realismo con cui Volpi tratta la questione delle intelligenze extraterrestri. Ma soprattutto ho ammirato e condiviso la difesa puntuale e appassionata della differenza irriducibile tra l’uomo e gli altri animali. Qui sono davvero in gioco sia l’umanesimo che il cristianesimo.

 

Ho però un grosso interrogativo: Volpi fa risalire alla stazione eretta la causa o l’origine di questa differenza irriducibile. La domanda allora si sposta sull’origine della stessa stazione eretta. La risposta è nota: è cambiato il clima e quindi la vegetazione nelle zone dell’Africa dove vivevano i primati nostri antenati. Perciò, nell’arco di molti millenni, questi primati hanno progressivamente assunto la stazione eretta. In tutto ciò non vi è nulla di straordinario o diverso dai consueti fattori dell’evoluzione biologica. Per conseguenza la differenza irriducibile tra l’uomo e gli altri animali può essere spiegata adeguatamente all’interno di una corretta concezione dell’evoluzione, certo diversa da quella darwiniana o neodarwiniana, ma tale comunque da non implicare nulla di ontologicamente diverso dalla nostra realtà corporea, nulla come un’anima propriamente spirituale e tantomeno immortale.

Volpi parla, come abbiamo visto, di “costruzione dell’anima”, che avrebbe origine dal sentimento religioso, e della scoperta dell’esistenza nell’uomo di una dimensione diversa dalla materialità, una dimensione spirituale, trascendente e religiosa. La mia impressione è però che anche queste espressioni siano da intendere non nel senso di una diversità e trascendenza nell’essere bensì della capacità, che certamente abbiamo, di pensare e di fare scelte di vita che vanno molto al di là del mondo materiale.

Quale che sia la risposta che Roberto Volpi potrebbe dare a questo interrogativo, il suo libro  “Dio nell’incerto” è, a mio parere, qualcosa di nuovo nel nostro panorama culturale, una novità per certi aspetti preziosa.

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