Il Papa può mediare solo in un modo: telefonare a Putin
Parolin chiama Lavrov e chiede che si interrompano i combattimenti sul campo. Francesco può far valere la sua "intesa" con il presidente russo
Le carte in mano alla Santa Sede non sono molte, ma dietro a quel "sarà fatto tutto il possibile" si legge una strategia che va oltre l'assistenza umanitaria ai profughi in fuga dalla guerra
“L’intervento della Santa Sede si colloca a più livelli”, ha detto a Tv2000 il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, che martedì ha avuto una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al quale ha chiesto di fare il possibile perché “si fermino i combattimenti”. Tre sono i livelli d’azione, ha chiarito Parolin: intanto, “l’insistente preghiera perché il Signore doni la pace a quella martoriata terra”, poi “l’intervento umanitario” e infine “c’è la disponibilità di iniziative su piano diplomatico. Ci sono già vari tentativi che si stanno svolgendo in giro per il mondo e quindi noi siamo disponibili, se è ritenuto che la nostra presenza e la nostra azione può aiutare, noi siamo lì”.
Parolin traduce nel linguaggio diplomatico il “farò tutto quello che posso” che una settimana fa il Papa aveva assicurato all’arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, Sviatoslav Shevchuk. La partita non si presenta facile, a mischiarsi sono ragioni politiche, storiche e religiose. L’Ucraina è il punto di incontro – e sovente di scontro – tra il cristianesimo orientale e quello occidentale. Ci sono gli ortodossi d’obbedienza moscovita e quelli che guardano a Costantinopoli (che ha concesso l’autocefalia a Epifanio), infine i 5-6 milioni di greco-cattolici fedeli al Papa, sprezzantemente definiti “uniati” dal Patriarcato russo. Cosa può fare Francesco in tutto questo? Attaccare pubblicamente l’aggressione russa con tanto di nomi e cognomi magari pronunciati dalla finestra del Palazzo apostolico? Le Croix ha ospitato il commento di un rinomato slavista francese, Yves Hamant, critico verso la posizione assunta fin qui dalla Santa Sede: “Si può immaginare che Papa Francesco dia implicitamente il suo appoggio a un tale regime?”. Il punto critico è la Dichiarazione firmata all’Avana nel 2016 dal Papa e Kirill; dichiarazione che fin dal principio, spenti i riflettori ed esaurita la commozione per lo storico abbraccio, risultava essere enormemente sbilanciata a favore dei desiderata moscoviti. Non solo perché in certe parti – più attinenti alla morale – stridevano con la “stagione delle aperture” bergogliana, ma soprattutto nei paragrafi dedicati alla crisi ucraina che due anni prima aveva portato all’annessione della Crimea da parte del Cremlino. “Deploriamo – si legge nel testo ufficiale – lo scontro in Ucraina che ha già causato molte vittime, innumerevoli ferite ad abitanti pacifici e gettato la società in una grave crisi economica e umanitaria. Invitiamo tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per costruire la pace. Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto”.
Parole che già allora avevano portato parte del clero ucraino a storcere il naso, mostrando preoccupazione per l’uso di termini molto generici che non trovavano aderenza nella realtà e che oggi sembrano lontane anni luce, mentre i tank mandati da Putin avanzano sul territorio ucraino con i missili ad accompagnare la marcia. “Cosa possiamo chiedere all’Ucraina? Rinunciare alla sua esistenza come stato sovrano? E con quali garanzie?”, scrive Hamant: “Abbiamo capito che Putin mentiva costantemente e che ai suoi occhi i trattati che firma legano solo i loro co-firmatari. Ha già violato tre volte i suoi obblighi nei confronti dell’Ucraina: gli obblighi generali derivanti dal diritto internazionale sul rispetto delle frontiere, il trattato di amicizia tra Ucraina e Russia (1997), il memorandum di Budapest (1994)”. Insomma, è l’ora di lasciar perdere Dichiarazioni e abbracci e di dar prova di realismo. E cioè, sostiene questo filone di pensiero, parlare chiaro in nome della Verità, denunciando e schierandosi senza tentennamenti dalla parte degli aggrediti. Senza cedere a distinguo e premesse, come alla vigilia dell’attacco fecero anche i media vaticani e della Conferenza episcopale italiana (Osservatore Romano e Avvenire), ricordando le responsabilità dell’occidente e riproponendo la favola delle promesse occidentali datate anni Novanta secondo cui la Nato non si sarebbe estesa alle repubbliche baltiche e agli ex territori dominati dal comunismo sovietico. Insomma, la linea della “provocazione” cui Putin avrebbe reagito. Domenica scorsa, al termine dell’Angelus, Francesco ha smentito la narrazione cara al Cremlino, dicendo che “non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria”. Nove giorni prima, con una mossa inusuale, si era recato di persona presso la sede diplomatica russa in via della Conciliazione, conversando per quaranta minuti con l’ambasciatore. Successivamente, aveva telefonato al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e all’arcivescovo Shevchuk.
L’atteggiamento è quello della terzietà, che non significa incapacità di distinguere tra aggressore e aggredito. Parolin ribadisce che il Papa è disponibile – se richiesto – a facilitare una mediazione, però qualcuno deve chiederne l’intervento. Altrimenti il fallimento sarebbe scontato. Uno dei possibili canali, probabilmente il più doloroso per Francesco, si è già chiuso: il Patriarca di Mosca Kirill ha chiarito che a soffrire sono da otto anni nel silenzio del mondo gli ortodossi del Donbas (non gli ucraini) e che la guerra ha un significato metafisico. Altro che Dichiarazione dell’Avana: Kirill ha scelto ancora una volta di non rompere l’asse con il Cremlino, confermandosi fedele all’afflato nazionalista che vede nella Grande madre Russia il bastione a difesa della cristianità messa in pericolo dalle deviazioni e distrazioni occidentali. Dato il contesto, cosa può fare realmente Francesco? L’arcivescovo Shevchuk, quando Putin non aveva ancora dato ordine di attaccare, spiegava che se il Papa fosse andato lì, a Kyiv, la guerra sarebbe finita prima ancora di iniziare. L’unico vero interlocutore del Pontefice resta, in fin dei conti, quel Vladimir Putin ospitato più d’ogni altro (salvo Angela Merkel) in Vaticano. Il presidente russo cui il Papa ha dato ampio credito, anche quando le cancellerie occidentali lo escludevano dal G8 e ne denunciavano la stretta sul rispetto dei diritti umani e l’accumulo di sempre più potere nelle sue mani. E’ a Putin che il Papa si rivolse per salvare la Siria di Bashar el Assad dai bombardamenti occidentali che nell’estate del 2013 parevano imminenti: “Nel chiederle di pregare per me, profitto dell’opportunità per esprimere, signor presidente, i miei più alti sentimenti di stima”, chiudeva Francesco nella sua lettera del 4 settembre. Se mediazione dovrà esserci, non potrà che passare dalle stanze più segrete del Cremlino. Senza figure di secondo o terzo piano. Un po’ come fece Giovanni XXII nel 1962, quando chiamò alle loro responsabilità Kennedy e Kruscev.
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