La Chiesa disarmata
Dalla Cina alla Russia, un mese è bastato per cancellare otto anni di realpolitik vaticana. Il disorientamento non è solo dato dalla tradizionale prudenza
Cosa può fare di più Francesco mentre i missili del Cremlino cadono su Kyiv? Il rischio concreto di essere iscritto da Mosca nella lista dei nemici
E’ tempo che Francesco dica la verità sull’assalto omicida all’Ucraina, è tempo di chiamare le cose per quello che sono. Questa è la guerra di Putin ed è il male”, scriveva il National Catholic Reporter, autorevole rivista del cattolicesimo liberal americano, chiedendo che il Papa denunciasse pubblicamente l’aggressore russo, facendo il nome e il cognome del responsabile, cioè Vladimir Putin. Gli faceva eco, giorni dopo, il New York Times, allungando sull’eredità di Jorge Mario Bergoglio l’ombra di Pio XII, condannato da una certa élite culturale sulla breccia negli anni Sessanta a passare alla storia come un sinistro sostenitore di Hitler, reo d’aver taciuto quando l’orrore delle deportazioni nei campi di concentramento e delle camere a gas era già abbastanza noto.
Pure il Monde ha chiesto parole nette del Pontefice, così come la Croix ha ospitato l’intervento del grande slavista Yves Hamant che poneva sul banco degli imputati il Papa, domandandosi fino a quando l’atteggiamento apparentemente passivo di Francesco sarebbe stato interpretato come dettato dalla prudenza e non, invece, come sostegno implicito al regime putiniano. Hamant è sibillino nel parlare di “sostegno”, sapendo bene che per anni Bergoglio ha coltivato una sorta di special partnership con il presidente russo, leader secondo solo ad Angela Merkel quanto a visite compiute in Vaticano dal 2013 a oggi. E’ a lui che Francesco scrisse una lettera deferente pochi mesi dopo essere stato eletto al Soglio petrino, chiudendola con un attestato di stima che va ben oltre il consueto stile della felpata diplomazia d’oltretevere. Putin come leader di un mondo opposto al globalismo occidentale che il Papa ha da sempre avversato, fedele com’è al concetto del poliedro con le sue mille facce diverse rispetto alla sfera che tutto uniforma. Putin defensor fidei del vicino oriente minacciato da un lato dall’orda califfale islamista e dall’altra dalle possibili azioni a guida americana che avevano già stravolto il tessuto sociale iracheno.
Abiurare otto anni di paziente lavoro in meno di un mese è impresa ardua, di mezzo ci andrebbe non solo l’intesa personale tra Francesco e il leader russo ma una linea politica seguita con determinazione in questi anni di pontificato. E’ evidente la diversità di trattamento riservata da Francesco, uomo del sud del pianeta e ostile all’imperialismo yankee, a Donald Trump, bollato in aereo davanti ai giornalisti come un “non cristiano” perché vuole muri. Ma il discorso è più ampio, neanche con il successore Joe Biden, cattolico devoto della East coast, i rapporti sono granché migliorati. Il fossato che separa la Roma papale dagli Stati Uniti è culturale e trascende le leadership pro tempore. Uscire da questa trama intricata è complicato, se non impossibile. Il punto è che ora è scoppiata una guerra, c’è un chiaro aggressore e c’è un aggredito. Ed è evidente che l’aggressore è colui al quale il Papa aveva dato un credito amplissimo, molto più generoso di quanto avevano fatto altri leader occidentali legati a Mosca da interessi economici nel settore dell’energia. Francesco, pur di tenere aperto il canale con la Russia, ha sacrificato molto della sua visione di Chiesa sull’altare della realpolitik, firmando con Kirill, in una saletta dell’aeroporto José Martí dell’Avana, una Dichiarazione che sembrava scritta da un ufficio legale di Mosca. Al punto da sembrare più vicino alla lettura “pacifica” e “naturale” che dell’annessione della Crimea diede il Cremlino rispetto a quella drammatica proposta dalla Chiesa greco-cattolica ucraina. “Invitiamo tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per costruire la pace. Invitiamo le nostre chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto”, firmavano i due leader spirituali mentre la penisola veniva staccata da un paese e attaccata a chi l’aveva invasa.
Davanti alla reazione delusa di gran parte dei fedeli greco-cattolici, l’allora nunzio mons. Claudio Gugerotti disse di sapere “quanto questo popolo ucraino soffre nella propria carne la fatica dell’incomprensione. Portate pazienza se non si può sempre dire tutto come si vorrebbe da parte di tutti, perché bisogna ‘compromettere’ per fare un testo comune”. Nel 2018, poi, ricevendo in Vaticano una delegazione del Patriarcato moscovita, il Pontefice fu duro nei confronti dei greco-cattolici, sprezzantemente definiti “uniati” proprio da Mosca: “La Chiesa cattolica, le Chiese cattoliche non devono immischiarsi nelle cose interne della Chiesa ortodossa russa, neppure nelle cose politiche. Questo è il mio atteggiamento, e l’atteggiamento della Santa Sede oggi”. Nulla poteva frapporsi al canale aperto con Kirill e, più in generale, con la Russia. Il dialogo ecumenico, prima di tutto, e poi considerazioni di mera realpolitik: Putin serviva perché senza di lui Bashar el Assad avrebbe fatto la fine di Saddam Hussein, portando la presenza cristiana a ridursi sempre di più fino a estinguersi. Ecco perché l’abbraccio con il Patriarca contava più del contenuto della Dichiarazione congiunta, quasi che quel testo non fosse altro che la concessione fatta ai russi per avere la photo opportunity sotto gli occhi compiaciuti di Raúl Castro, il comunista nella cui casa si ritrovavano la prima e la terza Mosca dopo mille e più anni di divisioni, odi e scomuniche.
Otto anni di paziente tessitura distrutti in tre settimane. Si pone dunque il dilemma: cosa può fare il Papa mentre i carri armati entrano a Mariupol e i missili piovono su Odessa e le tante altre città d’Ucraina? Il Papa denuncia, invita alla preghiera e al digiuno, consacra la Russia e l’Ucraina al Cuore immacolato di Maria, si propone come facilitatore di una mediazione tra le parti. Che non è scontata, può esserci o no, l’ha detto anche il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin. Va di persona a discutere con l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, telefona due volte a Volodymir Zelensky, incoraggia il nunzio a Kyiv e i vescovi rimasti in mezzo al gregge sofferente. E’ vero, al Pontefice si domanda una prova di verità, e la verità mai come in questo contesto appare semplice e lapalissiana: un aggressore invade uno stato sovrano, giustificando l’impresa come necessità di denazificare quel territorio e di fermare un genocidio che non esiste. Non c’è molto da discutere, su questo. Ma se il Papa parlasse come vorrebbero i circoli d’oltreoceano e i club parigini, cosa si otterrebbe? Di certo la situazione degli ucraini stipati in cantine e scantinati non migliorerebbe né fermerebbe i piani di Putin. La conseguenza, immediata, sarebbe la messa in pericolo della comunità cattolica in Russia – non passerebbe molto tempo dalla denuncia papale prima che il clero moscovita più nazionalista e anticattolico additasse il nemico “papista” –, la fine di ogni dialogo ecumenico (di per sé già assai complicato dopo la rottura tra Mosca e Costantinopoli) e la subitanea iscrizione da parte del Cremlino della Santa Sede tra i perfidi occidentali fiancheggiatori dell’America. Conviene? Di certo non sarebbe saggio.
Di Pio XII s’è detto, ma per arrivare ad anni più vicini si può fare l’esempio di Giovanni Paolo II, che condannò la guerra in Iraq del 2003, senza mai però attaccare direttamente gli Stati Uniti e i loro alleati europei. Al contrario, Wojtyla spedì un proprio inviato a Washington (il cardinale Pio Laghi) con l’incarico di fare il possibile per scongiurare l’attacco, così come mandò il cardinale Roger Etchegaray a Baghdad a persuadere Saddam Hussein affinché si mostrasse più disponibile a venire a patti. Mai, però, dalla finestra del Palazzo apostolico, Giovanni Paolo II scomunicò George W. Bush. Francesco all’Angelus ha parlato in modo chiaro, più di quanto fosse lecito attendersi.
Non avrà fatto i nomi e i cognomi degli aggressori, ma neanche il suo più arcigno nemico può negare che quando ha parlato “violenta aggressione contro l’Ucraina, massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità” non si riferisse proprio al Cremlino. Il Papa ha condannato “la guerra ripugnante”, una “crudeltà disumana e sacrilega”, ricordando che questa non è “solo un’operazione militare”, bensì “una guerra che semina morte, distruzione e miseria”. Pochi giorni prima, l’Osservatore Romano – che nei primi giorni del conflitto, un po’ disorientato, si era infilato suo malgrado nello schieramento dei “sì però anche la Nato” (si ricordava che l’Alleanza atlantica ha in sostanza provocato Mosca per almeno due decenni piazzando i missili ai confini dell’ex impero sovietico) – in prima pagina pubblicava le foto delle devastazioni operate dai russi e beffardamente titolava “operazione speciale”. Insomma, anche in Vaticano è chiaro chi è l’invasore.
Il punto è un altro, un problema più profondo e gravido di conseguenze: si è davanti al rischio concreto del fallimento della linea perseguita dal pontificato di Francesco in materia di affari internazionali. Il realismo pressoché ortodosso che ha fatto tacere sulle violenze cinesi a Hong Kong per non turbare la fragilissima e squilibrata intesa con Pechino ha portato a poco più di un timido riconoscimento da parte di Xi Jinping che i vescovi possono essere nominati dal Papa (seppure seguendo metodi concordatari ottocenteschi). Al prezzo, però, di non dire nulla su quel che la Cina fa rispetto alle minoranze e alle confessioni religiose. E quando Francesco osò esprimere qualche parola di conforto per gli uiguri – “Io penso spesso ai popoli perseguitati: i rohingya, i poveri uiguri, gli yazidi” –, subito arrivò la ramanzina dei maggiorenti comunisti: “Le sue dichiarazioni sono basate sul nulla, tutti i gruppi etnici nel paese godono del pieno diritto alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla libertà religiosa”, disse il viceministro degli Esteri cinese. Punto. Ora, la Russia.
I due poli antiamericani verso cui s’è rivolta l’attenzione di Francesco, in chiara discontinuità con la linea precedente – ammetterlo non è un peccato né un’offesa, è solo una banale constatazione – gli hanno voltato le spalle. Se alla Cina dell’amicizia del Papa è sempre interessato poco, il discorso è diverso in riferimento a Putin. Al leader del Cremlino la legittimazione papale andava benissimo, era una sorta di cappello protettivo davanti alle cancellerie occidentali che lo escludevano dal G8 dopo l’annessione della Crimea. Putin, come s’è detto, si recava a Roma, si scambiava doni con Francesco, tornava in patria con la benedizione papale e i saluti di Francesco da portare a Kirill. Il disegno mistico della Grande Madre Russia di cui il Patriarca era teorico non disturbava troppo, almeno pubblicamente, la Santa Sede. Che, anzi, si premuniva di redarguire i greco-cattolici ucraini a non intromettersi negli affari dell’ortodossia.
Il prezzo da pagare alla linea realista: mandare giù bocconi amarissimi pur di tenere aperti canali di dialogo e salvare l’obiettivo finale, che in questo caso è innanzitutto il dialogo ecumenico e poi l’argine all’espansionismo occidentale che tende a uniformare tutto, identità e società. Però, “la realtà è superiore all’idea”, come ha sovente ribadito Papa Francesco, e la realtà oggi impone una revisione delle linee “programmatiche”: lo “stimato” leader cui s’era affidata la salvaguardia del vicino oriente nove anni fa è oggi il responsabile “di un massacro disumano e sacrilego”; il Patriarca Kirill, protagonista del disgelo e dello storico abbraccio a Cuba, è colui che oggi benedice la guerra parlando di metafisica e di interventi stranieri che vogliono dividere la mitica Rus’, mentre il suo stesso clero si spacca ed è pronto ad affidarsi al nemico Bartolomeo di Costantinopoli. La Terza guerra mondiale a pezzi, tante volte descritta dal Pontefice nei suoi viaggi internazionali, sempre più va a lambire il campo della religione. Una linea rossa il cui superamento avrebbe, sì, conseguenze inimmaginabili.
Editoriali
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