La Chiesa pacifista non rinuncia alla vecchia dottrina cara a Emmanuel Mounier
La complessità descritta nella sua epoca dal filosofo francese, pur con alcuni importanti aggiornamenti, resta al centro del magistero odierno della Chiesa
Pubblichiamo un estratto della Prefazione di Stefano Ceccanti a “I cristiani e la pace”, il saggio di Emmanuel Mounier edito da Castelvecchi
Nonostante la diffusione di posizioni pacifiste radicali nel seno della Chiesa cattolica, eticamente apprezzabilissime sul piano individuale, e la necessità di un protagonismo diplomatico ed ecumenico della Santa Sede, che la porta, con il Pontefice pro tempore in carica, chiunque egli sia, a non polemizzare con nettezza nei confronti di paesi aggressori, come oggi nel caso della Russia putiniana, la complessità descritta nella sua epoca da Mounier, pur con alcuni importanti aggiornamenti, resta al centro del magistero odierno della Chiesa.
Il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa cattolica del 2006, nel numero 500 ripropone le quattro condizioni enunciate da Mounier, con un’aggiunta di maggiore cautela sulla “potenza dei moderni mezzi di distruzione”. Sulla questione dell’autorità legittima, il numero 501 richiama la Carta dell’Onu e il ruolo del Consiglio di Sicurezza. Il paragrafo 506 apre con analoghe condizioni anche a forme di ingerenza umanitaria dentro il singolo stato, mettendo quindi in discussione la sovranità statale ed elogia l’istituzione della Corte penale internazionale.
In altri termini, rispetto alla ricostruzione di Mounier, la Dottrina sembra mostrare un dubbio maggiore rispetto al canone della proporzionalità, essendo cresciuta la potenza distruttiva dei mezzi, ma sembra estendere la retta intenzione anche all’ingerenza umanitaria. I due aggiornamenti più rilevanti, in altri termini, confermano la complessità della Dottrina, perché l’uno invita a una maggiore prudenza mentre l’altro estende le finalità che possono legittimare l’uso della forza.
Il paragrafo 500 condiziona l’esercizio della legittima difesa anche alla sua ragionevole efficacia: essa va praticata quando “ci siano fondate condizioni di successo”, cosa che ovviamente mira a evitare forme di testimonianza estrema. Non si può tuttavia leggere questa osservazione in modo semplicistico, come se la valutazione fosse limitata al solo momento di un’aggressione e alle sue più immediate conseguenze: così sarebbe ammessa solo una resa senza condizioni. La Scrittura, del resto, ci presenta il caso di Golia, molto più alto e forte, ma con una capacità visiva inferiore a colui che lo sconfisse (Davide oppure Elcanan, a seconda delle diverse narrazioni). Chi vede più lontano sa che chi appare soccombente a breve non lo è necessariamente alla fine del percorso.
In ogni caso, obiettivamente, prima e dopo, resta una grande complessità dei criteri individuati e il rifiuto di posizioni semplificatorie, come aveva chiarito pochi anni prima la Nota dottrinale della Congregazione della Dottrina della Fede del 2002, che rigettava puntualmente sulla pace “una visione irenica e ideologica, […] dimenticando la complessità delle ragioni in questione”, a cui opponeva “un impegno costante e vigile da parte di chi ha la responsabilità politica”.
Lungi dal congelare la Storia, la fine della Guerra Fredda ha ripresentato costanti dilemmi sui nodi della pace e della guerra. Con la conclusione di un periodo in cui gli equilibri erano definiti da due superpotenze nell’ambito di sfere di influenza ben definite, anche se non comparabili tra loro (l’occidente delle società aperte, pur con tutte le sue imperfezioni e contraddizioni, è stato ed è comunque un “mondo libero”), si sono moltiplicate le situazioni di crisi in cui le democrazie occidentali si sono trovate a dover scegliere tra mobilitazione bellica e neutralità: dalla prima Guerra del Golfo deliberata dall’Onu, alla Seconda voluta da Bush contro il parere dell’Onu (e per questo ritenuta dal presidente Ciampi in contraddizione frontale con l’articolo 11, tanto da precludere una partecipazione italiana), all’intervento umanitario in Kosovo contro la durissima repressione della minoranza albanese da parte di Miloševićc, a quelli in Afghanistan e in Libano, fino all’invio di armi all’Ucraina. Questi dilemmi si prestano male a sicurezze assolute, e spesso i giudizi possono anche cambiare, perché una piena consapevolezza dell’impatto delle decisioni si può avere, tendenzialmente, solo dopo lo svolgimento degli eventi. Inoltre, non tutto ciò che è legittimo è di per sé opportuno e fecondo.
Tuttavia, senza cadere in facili manicheismi, giova sempre ricorda- re che un Diritto imperfetto è sempre meglio di alcun Diritto. L’approccio delle culture democratiche che hanno fatto nascere la Costituzione, a differenza della sostanziale rassegnazione del bellicismo alle pulsioni peggiori della volontà di potenza e alla ricerca di perfezione del pacifismo astratto, fa propria l’importanza della battaglia per le cause imperfette teorizzata da Emmanuel Mounier, che l’ha ripresa dal filosofo Paul-Ludwig Landsberg.
Come ha scritto Mounier, la “forza creatrice” dell’impegno nasce dalla tensione feconda che esso suscita fra l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco. L’astensione è un’illusione. Lo scetticismo è ancora una filosofia: ma il non intervento fra il 1936 e il 1939 ha prodotto la guerra di Hitler. D’altra parte la coscienza inquieta e talvolta lacerata che noi acquistiamo dalle impurità della nostra causa ci tiene lontani dal fanatismo, in uno stato di vigile attenzione critica; e, inoltre, col sacrificare alla sollecitazione del reale le vie e le armonie da noi fantasticate, conquistiamo una sorta di virilità, che risulta dall’esserci liberati da tante ingenuità e illusioni, e dallo sforzo continuo di fedeltà su vie irte d’imprevisti. Il rischio che noi accettiamo nell’oscurità parziale della nostra scelta ci pone in uno stato di privazione, d’insicurezza e di ardimento che è il clima delle grandi azioni.