Se la guerra non è più giusta. Le interpretazioni della Chiesa durante la storia
Per più di mille anni il cattolicesimo ha proposto la linea di sant’Agostino, ma è nel Novecento che tutto cambia. Dalla Prima guerra mondiale ai Balcani, fino alla posizione di Papa Francesco sull’Ucraina
Il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della “guerra giusta”. Mentre il Patriarcato di Mosca ha presentato l’aggressione russa sotto forma di una guerra santa, le chiese ucraine – sia ortodosse (quella che obbedisce a Mosca come quella che obbedisce a Costantinopoli), sia cattoliche (quella di rito greco come quella di rito latino) – hanno caratterizzato la resistenza all’invasione come una guerra giusta. Dal canto suo Papa Francesco ha assunto una diversa posizione. Parlando al telefono con il Patriarca di Mosca Kirill, gli ha ricordato che oggi le chiese non possono, come un tempo, parlare né di guerre sante, né di guerre giuste, perché “le guerre sono sempre ingiuste”. Poi il 18 marzo, all’incontro promosso dalla Fondazione “Gravissimum educationis” ha esclamato “non esistono le guerre giuste: non esistono!”.
La questione pare dunque assai intricata. Per cercare di districarla un aiuto può venire dalla storia. Il tema della giustizia della guerra ha in effetti uno svolgimento millenario. Nella teologia cattolica la prima formulazione di sant’Agostino è stata via via aggiornata fino al Novecento. Ne è però restato costante l’impianto di fondo. Si basa sulla tesi che la guerra è un gravissimo male, ma gli uomini a causa del peccato originale non possono evitarla. Tuttavia possono sottoporne la promozione e la conduzione all’etica, stabilendo regole che limitino le sue conseguenze comunque negative.
La strutturazione novecentesca di tale concezione si articola in uno ius ad bellum – i requisiti che rendono legittimo iniziare una guerra – e un ius in bello (i comportamenti moralmente leciti nel corso di un conflitto). Ovviamente il primo aspetto è più rilevante. Prevede che, in caso di una violazione della giustizia nelle relazioni tra gli stati, un governo, dopo che siano risultati vani tutti gli sforzi per giungere a una pacifica composizione della vertenza, può lecitamente ricorrere all’uso delle armi per il ripristino del retto ordine della vita internazionale. Deve però osservare alcune condizioni. Oltre ad avere la fondata presunzione del successo militare, deve poter ragionevolmente calcolare che gli inevitabili mali derivanti dalla guerra risultino inferiori al bene che comporta la restaurazione della giustizia. La dottrina della guerra giusta si fonda dunque su due principi: necessità e proporzionalità.
La Chiesa delega al responsabile giudizio dei reggitori della cosa pubblica le valutazioni relative all’adempimento dei criteri posti per la giustificazione etica della violenza bellica: solo i governanti possiedono le informazioni necessarie per una corretta decisione. Una volta che l’abbiano presa, è stretto dovere dei credenti obbedire agli ordini delle autorità civili e militari. Ne va della loro salvezza eterna. Questo punto ha in realtà sollevato qualche critica. In virtù della dottrina della guerra giusta i cattolici dovevano partecipare a ogni conflitto deciso dall’autorità civile, anche se collocati su fronti contrapposti e quindi uccidendosi reciprocamente. Ma in una visione provvidenzialistica della storia – la guerra è una punizione divina inviata agli uomini per espiare i loro peccati – questa questione non ha mai seriamente intaccato la teoria.
Una prima erosione si verifica invece nel 1917, quando Benedetto XV scrive ai capi delle nazioni belligeranti che il conflitto in corso è un’“inutile strage”. Se la guerra è inutile, salta il principio di proporzionalità: quindi non ha più una giustificazione morale. Le potenziali conseguenze sono eversive: i cattolici non sono tenuti a obbedire agli ordini di un potere “ingiusto”. La deflagrazione viene però evitata. La Segreteria di stato fa sapere che il Papa si rivolgeva non ai fedeli, ma alle cancellerie, per spingerle a intraprendere la strada del negoziato davanti all’enormità della carneficina in atto. In effetti, fallito il tentativo di avviare la trattativa, nel discorso pubblico del Pontefice quel sintagma scompare. Tuttavia agli occhi dei teologi si è aperto un problema: le tragiche conseguenze sui civili della moderna guerra totale, quale si è rivelato il Primo conflitto mondiale, rendono ancora possibile calcolare razionalmente il rapporto tra i mali della violenza bellica e il bene della giustizia che attraverso di essa si vorrebbe conseguire?
La questione non può che riproporsi quando si profila l’arma nucleare. La affronta l’enciclica Pacem in terris pubblicata da Giovanni XXIII nell’aprile 1963, dopo che il mondo è stato sull’orlo della catastrofe con la crisi di Cuba. Il Papa sostiene che in questa nostra epoca che si vanta della bomba atomica è irrazionale ritenere che il ricorso alla violenza bellica rappresenti uno strumento idoneo a ripristinare la giustizia violata nelle relazioni tra gli stati. Infatti quale giustizia potrebbe mai esistere con la fine del consorzio civile? Dunque cadono i presupposti della guerra giusta. Ma la lettera del testo è molto precisa. E’ contro la ragione pensare di usare le armi ad iura sarcienda, cioè a restaurare il diritto internazionale violato. Ma nella tradizionale dottrina la giustizia che la guerra è chiamata a ripristinare ha anche un altro volto. Viene espresso dalla frase ad vim repellendam: è lecito usare la forza per respingere l’aggressore. L’enciclica nulla dice a questo proposito. Lascia insomma aperta la questione della guerra nucleare per legittima difesa.
Nei decenni successivi è questo il punto che l’autorità ecclesiastica approfondisce. La linea, come mostrano gli ufficiali documenti della Santa sede – in particolare il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) e il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (1994) – è piuttosto chiara. Nel quadro di una complessiva condanna della guerra – e della conseguente sollecitazione a operare per la pace – si procede lentamente, ma tenacemente, a circoscrivere le condizioni previste dalla dottrina tradizionale circa la liceità morale dell’esercizio del diritto alla difesa. Basta ricordare la riprovazione della produzione e sviluppo di armi ABC e l’esortazione alla loro distruzione; la proclamazione dell’obbligo morale di opporsi agli ordini che comportano crimini contro il diritto delle genti (ovviamente anche il diritto alla sopravvivenza); l’affermazione della liceità del riconoscimento statale dell’obiezione di coscienza per ragioni religiose all’uso della forza.
Un ulteriore contributo alla tendenza a restringere i limiti della giustizia nell’uso delle armi viene dagli interventi di Giovanni Paolo II in relazione alle concrete situazioni che deve fronteggiare. Al momento in cui si profila il terrorismo islamico, oltre a proclamare che non può esistere una guerra santa, vale a dire che Dio non può mai essere invocato per giustificare un conflitto armato, respinge le tesi dell’amministrazione statunitense sulla liceità di difendersi attraverso una “guerra preventiva”. Wojtyla chiarisce – con grande scandalo di ambienti cattolici nordamericani – che una tale fattispecie bellica non può essere moralmente giustificata come risposta alla violenza del terrorismo.
Quando si apre il tragico conflitto nella ex Jugoslavia, la Santa sede reagisce alla presentazione sotto forma di un giusto esercizio della violenza bellica dell’intervento militare a difesa di gruppi etnici minacciati nella loro stessa sopravvivenza. Chiarisce infatti che è legittima l’“ingerenza umanitaria” (quindi non la semplice interposizione con mezzi nonviolenti), ma l’impiego delle forze armate deve essere subordinato a precisi requisiti: sono gli organismi internazionali, vale a dire le Nazioni Unite, a stabilire l’evidente necessità di tutelare con l’invio di un contingente militare i fondamentali diritti umani di una popolazione e a dirigerne le relative operazioni. Buona parte dei teologi ha letto l’insieme di questo svolgimento storico come la dimostrazione che in una stagione in cui le guerre moderne mettono in campo armi che comportano la distruzione di massa dei civili, la teologia della guerra giusta ha esaurito il suo compito. La moralizzazione della guerra aveva senso fino a che si contrapponevano eserciti. Nel nostro mondo invece ogni conflitto inevitabilmente coinvolge bambini, donne, anziani, civili inermi e comporta il rischio della catastrofe nucleare. Tramontata la visione della guerra come punizione divina, essa appare come responsabilità delle scelte degli uomini. Se si uccide un innocente, si commette peccato. Lo stesso Giovanni Paolo II nel discorso al corpo diplomatico del gennaio 1991 ha chiaramente indicato il mutamento intervenuto: “Le esigenze dell’umanità ci chiedono oggi di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra”.
Papa Francesco ha tratto le ovvie conclusioni dell’itinerario compiuto dal magistero romano nell’ultimo secolo, compiendo un ulteriore passaggio. Nel messaggio per la cinquantesima giornata mondiale della pace (gennaio 2017), Bergoglio asserisce che lo stile di una politica diretta la costruzione della pace, se vuole essere coerente con il Vangelo, deve fondarsi sulla “nonviolenza attiva”. Non si tratta ovviamente di “resa, disimpegno e passività” nei confronti del male dell’ingiustizia, ma di sconfiggerlo senza dover ricorrere alla “forza ingannevole delle armi”.
La posizione espressa dal Pontefice sulla guerra in Ucraina non è che la coerente applicazione all’odierna situazione della tesi espressa in precedenza. Ma il suo atteggiamento è l’esito dell’itinerario compiuto dal magistero nell’ultimo secolo. Del resto le stesse forme assunte dal conflitto in atto – evidenti sono le tragiche ricadute sulle popolazioni civili, come evidente è il pericolo dell’uso di armi nucleari – non possono più farlo rientrare nei quadri di una moralità cattolica che i tempi hanno mutato.
Certo si può osservare che, mentre il pontificato romano svolgeva gli approfondimenti qui rapidamente descritti, la cultura cattolica ha continuato a ragionare sulla giustizia della violenza bellica, dimenticando quanto aveva auspicato la costituzione conciliare Gaudium et spes nel 1965. Il testo esortava a rivendicare i diritti (a mantenere quindi la giustizia), rinunciando alla violenza delle armi e ricorrendo invece “a quei mezzi di difesa che sono anche alla portata dei più deboli”. Ma questa è appunto un ritardo della comunità ecclesiale rispetto al governo del Papa.
L’autore è professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa
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