Pasqua, la vittoria sulla notte
Paura e angoscia segnano i nostri giorni. Lo scontro ideologico provocato da guerra e pandemia genera dialettiche insostenibili. In gioco ci sono i cosiddetti “nuovi valori” dell'umanesimo occidentale
Nelle terre martoriate dell’Ucraina, a due passi da noi, l’eco della morte torna a farsi minacciosa imponendo il suo suono sinistro
Nel 1965, a Castelgandolfo, Paolo VI scrisse il celebre Pensiero alla morte pubblicato sull’Osservatore Romano del 9 agosto 1979: “L’ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull’avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone. … Non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo. Fare tutto, fare bene. Fare finalmente ciò che tu ora vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita… E’ così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno e fa da ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna”.
Il dramma della morte, che si radica nell’esperienza singolare di ogni persona, non può però prescindere dal legame costitutivo con tutti i fratelli uomini. Per questo, senza perdere nulla della intrinseca esperienza personale della morte, essa è segnata dalle concrete circostanze e rapporti che fanno la realtà storica. L’eco della morte nelle nostre opulente società occidentali viene normalmente coperta da chiassose distrazioni. Oggi però nelle terre martoriate dell’Ucraina, a due passi da noi, torna a farsi minacciosa imponendo il suo suono sinistro. Per non parlare del rimbombo provocato dal Covid da più di due anni. Non v’è tempo in questa sede per analizzare le cause e le conseguenze di queste due pesanti prove. Sarà sufficiente tentare di coglierne il nucleo centrale. La guerra rappresenta sempre un processo degenerativo della convivenza, semina morte e suscita divisioni tra gli stati ed i popoli. Favorisce l’homo, homini lupus rompendo la fratellanza universale. E’ pertanto strutturalmente contro un ordine mondiale giusto fondato sulla libertà e sul diritto. Quanto alla pandemia essa mette in evidenza lo stretto vincolo che ci lega, rendendoci potenziali, anche se involontari, portatori di male e persino di morte gli uni per gli altri.
Paura e angoscia segnano i nostri giorni. Inoltre lo scontro ideologico provocato da questi due flagelli genera dialettiche spesso tortuose ed insostenibili. Mette in discussione quelli che negli ultimi decenni abbiamo spesso sbandierato come i “nuovi valori” dell’umanesimo occidentale. Di fronte ai due fenomeni della pandemia e della guerra resiste, è il caso di dirlo, il moto popolare di compassione documentato dalla massiccia mobilitazione per accogliere i profughi e prendersene cura. Il gratuito fare spazio a chi è nel bisogno, espressione di un’esigenza universale inestirpabile, finisce per battere i violenti contrasti che minano ora le nostre vite e per dare sapore umano alle nostre esistenze.
La situazione descritta, che come una tenaglia stringe da ogni parte la drammatica dell’io, ci porta a identificare nell’esperienza dell’angoscia (stato estremo di ansia: angustia) con il suo carico di dolore, sofferenza e morte (le potenze oscure che inevitabilmente segnano ogni umana esistenza), una cifra dominante della nostra vita.
Senza poter citare in questa sede gli studiosi che si sono occupati dell’angoscia – un nome per tutti: Kierkegaard (1813-1855) il primo nel suo genere a proporre un approccio teologico a questo tema – possiamo con Balthasar ritenere, anche dopo Freud e Heidegger, che i poteri tenebrosi siano, almeno per il cristianesimo ma non solo, in un certo senso naturali. E il Figlio di Dio non è venuto al mondo per risparmiare all’uomo l’angoscia legata strutturalmente alla sua contingenza.
Quale via d’uscita, se esiste, da questa situazione di stallo? Come vivere, se è possibile l’angoscia, non certo per abolirla ma per poter convivere con essa e con i poteri tenebrosi da cui è generata?
Scrive il discutibile ma acuto romanziere Michel Houellebecq: “Per l’occidentale contemporaneo, anche quando gode di buona salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che i progetti e i desideri vanno sfumando. Con l'andar del tempo, la presenza di tale rumore si fa sempre più invadente; la si può paragonare ad un brusio sordo, talvolta accompagnato da uno schianto. In altri tempi, il rumore di fondo era costituito dall'attesa del regno del Signore; oggi è costituito dall'attesa della morte. Così è” (Le particelle elementari, 1998).
Per raccogliere la sfida che la morte porta a ciascuno di noi dobbiamo risalire alla domanda delle domande, quella che le attraversa tutte. “Da qualche parte qualcuno alla fine mi ama?”.
Solo la risposta positiva a questa domanda può assicurare l’io: “Chi mi assicura? E mi assicura per sempre compiendo l’impresa di liberarmi dall’angoscia di morte?”. Ben la descrive la Lettera agli Ebrei: “…per timore della morte [gli uomini] erano tenuti in schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). E la Seconda Lettera di Pietro precisa: “…l’uomo è schiavo di ciò che lo vince” (2Pt 2,19). La morte anche nel pieno dell’umana esistenza appare radicalmente invincibile. Essa, con le strabilianti possibilità di cura oggi disponibili, può al massimo essere post-posta. Né è possibile cercare di liberarsi da questa schiavitù con derive eutanasiche: la domino perché ne anticipo io il momento, dandomela da me, magari assistito nel suicidio.
Eppure la storia dell’occidente, storia che ha ormai toccato gli estremi confini del mondo, il giorno di Pasqua grida: resurrexit sicut dixit. Gesù di Nazareth è realmente morto, ma ha vinto la morte che non poté ingoiarlo definitivamente riaprendo all’umanità la strada della speranza. Gesù ha provato l’angoscia di morte perché ha voluto fare propria quella di ogni uomo. Si è volontariamente consegnato alla morte per amore dell’intera umanità in ogni suo singolo. La Sua passione portata all’estremo, fino alla sudorazione di sangue nell’Orto degli Ulivi, fino al colpo di lancia del soldato romano con l’uscita di sangue ed acqua lo documentano. Cristo nel Suo Corpo – veicolo di tutta la Sua singolare Persona, vero Dio e vero uomo – ci offre la strada per affrontare le tenebrose potenze del dolore della sofferenza e della morte, in una parola dell’angoscia, che proiettano sulla nostra esistenza, in se stessa drammatica, un’ombra di tragedia. Quella di essere la risposta alla domanda: “Da altrove qualcuno mi ama?” è la pretesa che Cristo ha su ciascuno di noi. Vale pertanto la pena soffermarsi brevemente sull’esperienza dell’angoscia mortale di Cristo. Si potrà poi metterla in relazione con la nostra. Tenendo in vista, anche senza esplicitarlo, l’orizzonte della persona di Cristo e della Sua storia possiamo concentrarci sulle sue stesse parole: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).
Il contesto di passione in cui questa invocazione-preghiera di Gesù si situa mette in luce due elementi specifici dell’angoscia di Cristo.
Il primo è il Suo rapporto con il peccato degli uomini. Qui non ci interessa analizzare il nesso tra dolore, sofferenza, morte, angoscia ed il nostro peccare. E’ però necessario mettere in risalto oggettivo, come fanno i Vangeli, che l’angoscia di Cristo si manifesta nell’esperienza e quindi nella conoscenza compiuta di quale obbrobriosa tragedia sia il peccato di tutti noi che Gesù porta su di sé inchiodandolo sulla croce. La prova dell’abbandono del Padre subita dal Crocifisso fino a smarrirne il volto trova nello Spirito, che in quell’atroce momento tiene uniti i due, la garanzia che assicura. E l’angoscia che il peccato di ogni singolo uomo genera in Gesù va alla radice della nostra angoscia di fronte alla morte. Noi infatti non raggiungiamo neanche la soglia della conoscenza piena del nostro peccato. Vi è però un secondo elemento contenuto nella singolare angoscia di Gesù. Alla fine Egli la vince: “…abbiate coraggio io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). L’Angelo dice alle donne impaurite con il volto chinato a terra: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui. E’ risorto. Esse …tornate dal sepolcro annunciarono tutto questo agli Undici e agli altri” (Lc 24,5) Questa vittoria può diventare anche nostra, nella prospettiva del giudizio, sotto il quale il tempo della Chiesa, il nostro tempo, già si trova. Pensiamo ai Novissimi: morte, giudizio, inferno e Paradiso (escatologia). Per illuminare queste considerazioni possiamo un’altra volta ricorrere a Balthasar. Si deve distinguere bene tra l’angoscia “derivante dal peccato che al cristiano è proibita dall’angoscia derivante dalla croce. Nella prima si notano le proprietà caratteristiche del peccato: l’avversione, la fuga, l’irrigidimento della vita, la sterilità, lo smarrimento, la caduta nel precipizio, l’angustia, la reclusione, il rintanarsi, l’esilio” (H. U. von Balthasar, “Il cristiano e l’angoscia”, in Gesù e il cristiano. Scritti minori, Jaca Book, Milano 1998, vol. 25, p. 32). Invece l’angoscia che deriva dalla croce di Cristo “non è nient’altro che l’amore di Dio che assume in sé tutto questo mondo di angoscia per superarlo soffrendo. Un amore che in tutto è l’opposto dell’esperienza del peccatore” (ibid., 58).
Nell’esperienza della conversione riceviamo la grazia di passare dall’angoscia del peccato a quella della croce. La Redenzione (la Pasqua) è liberazione profonda che fa emergere l’uomo nuovo, ne documenta la libertà perché è piena di fecondità. Il paradigma di questa nuova vita è Maria sotto la croce. Non per nulla la Chiesa la venera come refugium peccatorum.
Chiediamo alla Vergine Maria di essere infiammati dall’amore per Suo Figlio. Per quanto riluttanti vogliamo vedere Gesù. Siamo inquieti come gli uomini del nostro tempo. Spesso smemorati, non raramente perduti, angosciati. Confusi e sballottati come naufraghi nel mare non di rado tempestoso delle mille contrastanti opinioni, ma attraversati in ogni fibra dall’insopprimibile desiderio di incontrare la risposta vitale che scioglie il nodo, non di rado intricato della nostra persona e della nostra vita.
Permettetemi di chiudere con l’augurio pasquale facendo mie le parole di Paolo Takashi Nagai, colpito dalla bomba atomica, uno dei grandi artefici della rigenerazione di Nagasaki: “Ci sono persone che non sopportano l’idea di dover morire. Provate a immaginare se un bel giorno vi arrivasse un invito che stavate aspettando da moltissimo tempo, da qualcuno che avevate tanto atteso di incontrare. Una persona al fianco della quale avete tanto desiderato intrattenervi, per stare a lungo tempo vicini a parlare. Il giorno in cui quell’invito arrivasse, quanto grande sarebbe la vostra gioia? La morte è l’invito di Dio, è con questa gioia in cuore che lo attendo. So bene con quanta tenerezza Egli si prenda cura di me. Per questo, quando finalmente riceverò il suo invito, sarò felicissimo di accettarlo” (Pensieri dal Nyokodö).
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