resistenza
Preti partigiani. Quando l'impegno della Chiesa contro il nemico non era fatto di marce e sit-in
Storia di don Battista Testa, prete partigiano che durante la guerra collaborò con i partigiani in Lombardia contro i nazifascisti
Era sanguigno e combattente don Battista Testa, “Il prete partigiano” cui è dedicato il libro uscito per Itaca e scritto da Ezio Meroni. Ma sarebbe limitante dire che la sua missione, nella Cinisello Balsamo degli anni Quaranta, fosse fatta solo di azione e lotta: mai mancò la compassione per gli altri, la fedeltà al suo cardinale Schuster – che per lui aveva una predilezione sin da quando era ragazzo e, figlio di contadini trevigliesi, non aveva soldi per pagarsi gli studi – l’impegno ad aiutare il prossimo. Il volume ha richiesto un lavoro di ricerca assidua, spiega l’autore in apertura: molti partigiani raccontavano di questo sacerdote, ma le tracce sul suo ruolo impiego erano ben poche. Ne è uscito un libro pieno di personaggi, date ed episodi, ricostruzione dettagliata di cosa fu la Resistenza nel nord di Milano, e fa vibrare i nomi di chi ha dato la vita per la libertà, con gesti piccoli o grandi, eroici e quotidiani.
Sono quelli di don Battista, che diventa sacerdote nel ’40, e a Cinisello viene inviato come coadiutore nel ’42. Anni terribili, dove nell’hinterland milanese si sentono gli echi dei bombardamenti sul capoluogo lombardo, i rastrellamenti fascisti e nazisti, la fame che avanza nelle famiglie. Difficile far finta di niente di fronte alla marcia incalzante della guerra. Don Battista è fedele al richiamo che fece Papa Pio XII nel Natale del ’42: “Non lamento, ma azione!”. Nell’agosto del 1943 stringe un patto con Pietro Vergani, futuro comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia, per combattere insieme i nazifascisti. Uno sacerdote, l’altro comunista che aveva perfino frequentato l’Università leninista di Mosca: nascono intesa e collaborazione di fronte alle minacce di quell’oggi, ma anche la certezza che in un “dopo” si sarebbero poi trovati contro.
Don Battista dopo l’armistizio si darà da fare in mille modi: nascondendo soldati italiani e prigionieri stranieri, ospitando una radio clandestina nei suoi locali, guidando l’attività dei cattolici all’interno del Cln locale, coordinando la distribuzione di sussidi alle famiglie dei renitenti e dei partigiani, organizzando l’invio di rifornimenti alle brigate di montagna. Ma a guerra finita, ecco quel “dopo” che mostra tutta la sua crudezza, fatta di omicidi sommari e misteri. Così don Battista, con lo stesso fervore con cui si batteva contro il fascismo ora teme il bolscevismo, e diventa un personaggio scomodo per i comunisti. Critica le uccisioni avvenute nella sede della 119esima brigata Sap e l’esecuzione delle camicie nere locali. Si batte per chiarire alcuni episodi poco chiari della Resistenza – molto si dice nel libro sull’oro di Dongo – che coinvolgono alcuni militanti di Cinisello Balsamo. Per l’Unità diventa il “mangiapartigiani”, ed è una triste sequela di accuse cui il prete sa rispondere sempre per le rime.
“Il fascismo toglieva la libertà, che non ha colore ma è il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo – avrebbe risposto negli anni Settanta a un giornalista che gli chiedeva il perché del suo agire durante la guerra; il valore dell’individuo sta nella libertà e se c’è uno che rispetta questa libertà è proprio il Padreterno, mentre la società la rispetta solo secondo il suo interesse. Come uomo e come cristiano, quindi, ho sentito il sacrosanto dovere di partecipare a questa lotta democratica per la libertà sociale e individuale”.