(foto LaPresse)

Il cortocircuito cattolico davanti alle bombe su Kyiv

Mai come in occasione dell'invasione russa dell'Ucraina le cose appaiono chiare su chi ha scatenato guerra e sofferenza. Ma i distinguo continuano anche nella Chiesa

Matteo Matzuzzi

Torna sempre il problema degli occidentali (noi) guerrafondai, risolto nel pavido né né, né con Putin che ha invaso né con gli occidentali che riempiono l’Ucraina di armi. Si sta fuori dalla contesa, richiamandosi al giusto valore della pace. Senza prendere atto di quel che succede sul campo, dove c’è chi soccombe e chi aggredisce

Il primo a parlare di Terza guerra mondiale è stato il Papa, anni fa. La vedeva “a pezzi”, un po’ qua e un po’ là, delocalizzata. In Africa e in Asia, nel vicino e nel medio oriente. Restava fuori l’Europa, benché fra Georgia e Ucraina i segnali di un’escalation ci fossero già stati. Ma nel 2014, quando Vladimir Putin staccava la Crimea dalla legittima autorità di Kyiv per annettersela – dopotutto, si disse, la penisola è sempre stata russa finché Kruscev (ucraino) decise di regalarla all’Ucraina – le coscienze occidentali erano distratte. Allora non suonavano le sirene né orde di reporter documentavano h 24 quanto lunghe e profonde fossero le buche scavate dai russi per adibirle a fosse comuni. All’epoca a distrarre c’era la Siria, con il Califfato nero che tagliava teste e minacciava gli infedeli.

  

Oggi che il mondo è cambiato e i pezzi di quella Terza guerra mondiale sono un po’ più uniti come in un puzzle, la Chiesa appare disorientata. Ha faticato a rendersi pienamente conto di quel che stava accadendo, impegnata com’era a organizzare incontri con Kirill, magari un po’ più concreti del precedente – al di là della indubbia importanza storica di quello dell’Avana del 2016 che però, per dirla con l’arcivescovo cattolico di Mosca, ha avuto scarsi sviluppi pratici – e a puntellare le colonne diplomatiche e geopolitiche del pontificato (credito alla Russia e apertura alla Cina). Così, mentre il Cremlino dava l’ordine di attaccare e di entrare in territorio ucraino, il Papa entrava nell’ambasciata russa presso la Santa Sede – “stavo segnalando al governo che avrebbe potuto mettere fine alla guerra in un istante” – e i media vaticani condannavano l’azione di Putin con una serie di “però” che di fatto sembrarono se non una giustificazione, quantomeno la spia di una certa comprensione: la Nato che si è allargata troppo, l’Europa che non dialoga, l’America bellicista. Davanti all’evidenza del massacro, lo spartito è presto cambiato e Francesco in ogni circostanza pubblica non ha mancato di condannare la guerra “sacrilega” e “disumana”. Non serviva chiamare per nome il responsabile del sacrilegio (il Pontefice non è Joe Biden), era già evidente e poi – come ha detto alla Nación – “un Papa non nomina mai un capo di stato, men che meno un paese che è superiore al suo capo di stato”. E’ vero, la storia è lì a dimostrarlo, neanche Giovanni Paolo II chiamò per nome chi mosse guerra al regime di Saddam Hussein, ma le sue parole nel 2003 non avevano bisogno di troppe spiegazioni o parafrasi per capire a chi fossero dirette.

  

Il problema è un altro, ed è la strada che la cultura cattolica propone oggi per venire a capo della matassa ucraina. Nel suo editoriale in vista del 25 aprile, il direttore di Avvenire (quotidiano della Conferenza episcopale italiana), ha scritto che “è impossibile sottovalutare e a maggior ragione adesso, quell’altra conquista che il 25 aprile ci ha consegnato: la liberazione dalla guerra”. Una liberazione che, però, non è certo arrivata con le marce della pace. Ma ci sono volute le armi, perché altrimenti resistere davanti a chi non si fa scrupoli a freddare civili in bicicletta in mezzo alla strada diventa un’impresa ardua, un inutile martirio. I princìpi sono validi sempre, la guerra i buoni non la vogliono. E’ sacrosanto lanciare appelli affinché le armi tacciano e per la ripresa dei negoziati diplomatici. Ma nel concreto, che si fa? 

  

Ha fatto discutere la locandina della Marcia per la pace Perugia-Assisi, che si è svolta domenica scorsa. Aggredito e aggressore messi sullo stesso piano, una mamma e un bambino terrorizzati e due proiettili provenienti uno da destra e uno da sinistra. “Fermatevi, la guerra è una follia”, lo slogan scelto. Immagine infelice, lo stesso padre Enzo Fortunato, storico portavoce dell’evento, ha preso le distanze, aggiungendo che è un manifesto che risale ai tempi della guerra in Kosovo e che nelle circostanze attuali appare fuori luogo. Resta la sensazione di un’ambiguità di fondo che dietro gli appelli generici alla fine delle ostilità cela un pregiudizio antioccidentale (e soprattutto antiamericano). Da qui i discorsi sulle bandiere della Nato in occasione del 25 aprile e le elucubrazioni sui confini dell’Alleanza atlantica troppo spostati a oriente. Mettendo in disparte il punto fondamentale, che poi è l’unico da cui si deve partire: il 24 febbraio, il presidente della Federazione russa ha invaso uno stato sovrano, libero e indipendente. Lanciando missili sulle città, avanzando a nord e a est, bombardando e occupando. C’è poco altro da dire. Invece no, torna sempre il problema degli occidentali (noi) guerrafondai, risolto nel pavido né né, né con Putin che ha invaso né con gli occidentali che riempiono l’Ucraina di armi. Si sta fuori dalla contesa, richiamandosi al giusto valore della pace, parlando di equilibri e confini, senza fare il passo ulteriore che poi altro non è che la presa d’atto realista di quel che succede sul campo, dove c’è chi soccombe e chi aggredisce. 

  

Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, è uno dei principali sostenitori di tale schema: “Uno dei gravi problemi del dibattito politico internazionale (da Putin a Biden) è il manicheismo che distingue (col coltello) l’impero del bene e l’impero del male: noi e loro. Liberiamoci da questa retorica eretica della civiltà dello scontro metafisico e necessario”, ha twittato. Ancora, “il contrario del manicheismo non è l’equidistanza. Ma la volontà di risolvere i conflitti, non di vincere sull’altro. Confondere le due cose è davvero fatale”. Infine, “spostare tutto il male da un lato e tutto il bene dall’altro è operazione che trasforma la politica in religione. E’ l’operazione metafisica promossa da Kirill che noi ora rischiamo di replicare dall’altra parte”. Tutto più o meno giusto e condivisibile, se non fosse che anche qui si perde di vista il punto centrale: il male, nella vicenda russo-ucraina, è tutto da un lato. A meno che, e si torna al punto di partenza, non si voglia cercare qualche giustificazione a quel che ha fatto Putin. Le cose appaiono molto semplici, si sa cosa vuole la Russia (intesa come stato governato da un ventennio dalla stessa persona), ed è sotto gli occhi di tutti cosa ha fatto il suo esercito a danno di uno stato libero e fino a prova contraria sovrano. Cosa ci sarebbe di sbagliato o di eretico nel voler vincere sull’altro, cioè sull’aggressore che minaccia un giorno sì e l’altro pure l’uso di “armi mai viste” nei confronti dei paesi europei? Per una volta, ed è una rarità, il canovaccio è chiarissimo e non occorrono troppe interpretazioni e analisi accademiche per spiegare in modi originali quel che la Russia fa, e che ha sempre fatto nella sua storia: tentare di espandersi (solitamente con la forza) per tutelare il proprio mondo chiuso che sente paranoicamente minacciato. E’ il solito terrore della disgregazione interna del Russkij mir, caro a Putin e Kirill e ancora di più all’ala oltranzista della Chiesa ortodossa, quella che fa apparire al confronto il Patriarca in carica una colomba.

  

“Le ragioni sugli equilibri di prima non bastano più. Nascondersi dietro a parole alte e necessarie – fossero anche quelle del Papa – per truccare, dissimulare, giustificare le nostre precedenti posizioni e le attuali, sa di strumentale”, ha scritto sull’ultimo numero della rivista cattolica Il Regno il direttore, Gianfranco Brunelli. Che aggiunge: “Si coopera a distruggere l’idea di bene, il valore cui ci si appella. Dichiarare che ci si deve arrendere all’aggressore, al male, perché così fa meno male, non corrisponde né alla teoria del ‘male minore’, né a quella della ‘nonviolenza’. Oggi il male minore è aiutare gli ucraini a difendersi; e la nonviolenza è essere presenti come resistenza attiva, ancorché non armata, per aiutarli a sopravvivere. Sono queste le scelte possibili. Il pacifismo che chiede la resa agli aggrediti, che cerca di dare ragioni a Putin per una trattativa indifferente a ogni valore in gioco è un pacifismo finto”. E’ qui che una vasta (probabilmente maggioritaria) corrente catto intellò è andata in crisi, arrivando a confondere – magari implicitamente, in qualche caso – la pace con un pacifismo sterile totalmente disincarnato dalla realtà. Si predica e chiede da ogni tribuna radio-social-televisiva il negoziato, quasi che ci fosse qualcuno che quel negoziato lo impedisce per oscuri motivi. Quando, nella realtà ormai indubitabile, a non voler trattare è Putin. O si vuole dare credito al Putin che riceve il segretario generale dell’Onu al Cremlino e il giorno dopo fa partire i missili su Kyiv mentre in città passeggia lo stesso Guterres? Un negoziato non può partire con una delle Parti che chiede di smembrare territorialmente e umiliare l’altra Parte, chiudendone l’accesso al mare, ponendo vincoli identitari. Un’altra Versailles produrrebbe prima una seconda Weimar e poi un nuovo 1933. Non sempre, ma a volte la storia è maestra.

  

Sergio Mattarella, esponente di rilievo della realtà cattolico-democratica italiana, nel suo discorso ad Acerra in occasione del 25 Aprile, ha riposizionato i paletti divelti dalle troppe chiacchiere da talk-show: resistente è chi “con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita”, si oppone “a un’invasione straniera, frutto dell’arbitrio e contraria al diritto, oltre che al senso stesso della dignità”. Senza sfumature né distinguo, senza parentesi aperte che tendano a scolorire responsabilità o a sottolineare che comunque qualche colpa gli aggrediti ce l’hanno. Ci sono tanti modi per resistere, ma se difendersi è legittimo, nel contesto dato non può che esserlo con le armi. Altrimenti è martirio, dato che il corale grido per la pace non sembra intenerire gli stati maggiori russi impegnati nello spianamento di Mariupol o nella conquista manu militari di Kherson.

  

Usciamo dal teatro russo-ucraino, forse troppo vicino al cuore d’Europa per rendere lucida l’analisi. Si torni indietro di qualche anno, quando nel vicino oriente imperava il califfato islamista di Abu Bakr al Baghdadi. “Uno stato ha il dovere di difendere i suoi cittadini da questi attacchi”, diceva il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, ribadendo (cosa fatta anche nelle ultime settimane) che “la Santa Sede afferma la legittimità di fermare l’ingiusto aggressore”, benché “sulle modalità, è la comunità internazionale che deve trovarsi d’accordo e trovare le forme per farlo”. Il problema della Chiesa cattolica è che i confini della legittimazione all’intervento armato sono andati sempre più restringendosi nel corso del Novecento. Lo choc per i due conflitti mondiali hanno portato alla rielaborazione del concetto caro a sant’Agostino, benché permanga viva – soprattutto oltreoceano – la considerazione che quando un popolo è aggredito ogni opzione è lecita e benedetta. Il che, inevitabilmente, porta anche a eccessi e storture. 

 

All’inizio del nuovo millennio, poi, con la strage dell’11 settembre 2001 in territorio americano, il tema si ripropose con forza, dividendo i cattolici e riproponendo la questione di quanto (e se) una guerra potesse essere considerata giusta. Disse la sua il gesuita Drew Christiansen, direttore della rivista America dal 2005 al 2012 e docente alla Georgetown University di Washington. Intervenendo pochi mesi dopo gli attentati, in un meeting della Association of Diocesan Attorneys ad Arlington, si soffermò sulla necessità di “elaborare per noi stessi una concezione moderna della guerra e della pace che vada ben oltre la teoria della guerra giusta e che integri la tradizione della guerra giusta con gli elementi che costituiscono la visione cattolica contemporanea della pace, ossia il rispetto dei diritti umani, l’impegno per lo sviluppo e per la giustizia negli affari internazionali e fattori più nuovi e recenti come la non violenza e il perdono”. Di certo, aggiungeva Christiansen, “l’unica opzione ideale che sembra essere esclusa dal magistero cattolico, anche se resta aperta ai singoli individui che rispondono alla propria coscienza, è quello che io chiamo ‘pacifismo della non resistenza’, ossia la non resistenza al male per principio. La premessa cattolica è che ognuno ha la responsabilità di resistere al male pubblico, con la non violenza se ciò è possibile, con l’uso della forza da parte dello stato se è necessario”

  

Così come tante volte la dottrina della guerra giusta ha subìto variazioni nel corso del tempo, così oggi servirebbe un aggiornamento, avvertiva vent’anni fa il gesuita (il testo della relazione fu pubblicato in Italia sul Regno-Documenti n.15/2002): “La sfida che abbiamo tutti davanti è riuscire a elaborare per noi stessi una concezione moderna della guerra e della pace che vada ben oltre la teoria della guerra giusta e che integri la tradizione della guerra giusta con gli elementi che costituiscono la visione cattolica contemporanea della pace, ossia il rispetto dei diritti umani, l’impegno per lo sviluppo e per la giustizia negli affari internazionali e fattori più nuovi e recenti come la non violenza e il perdono”. Papa Francesco ha detto più volte che “la guerra non è mai giusta”, Giovanni Paolo II gridò che “non ci sarà pace senza giustizia, né giustizia senza perdono”. Per il perdono, come s’è visto dalle reazioni ucraine in occasione della Via Crucis al Colosseo dell’ultimo Venerdì santo, è presto. Prima, va fermata l’aggressione, ingiusta e disumana. Per farlo, poco ha potuto, finora, l’appello al Cielo di lockiana memoria.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.