La rivoluzione nella Cei
Il Papa ai vescovi italiani: votate chi voglio io
A fine mese arriverà il nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana. E Francesco fa retromarcia rispetto a cinque anni fa
Nell'intervista al Corriere della Sera della scorsa settimana, il Pontefice ha chiarito di aspettaresi "un cardinale autorevole". Restringendo di fatto le opzioni a due, forse tre nomi su oltre duecento presuli. La ragione? Deluso dal quinquennio di Bassetti che non ha inciso come si sperava a Santa Marta
Roma. “Il bel cambiamento” per la Chiesa italiana, come l’ha definito il Papa, è imminente. A fine maggio, gli oltre duecentoventi vescovi della Cei si riuniranno a Roma per l’Assemblea generale che dovrà – tra le altre cose – scegliere il successore del cardinale Gualtiero Bassetti, ottant’anni compiuti e in procinto di lasciare anche la guida della diocesi di Perugia-Città della Pieve. O meglio, più che “scegliere” il presidente, i vescovi voteranno la terna dalla quale poi Francesco indicherà il preferito. Procedimento complesso, adottato cinque anni fa come una sorta di mediazione fra il Papa che voleva delegare al plenum episcopale la scelta dei suoi vertici (come del resto accade in tutto il mondo) e chi, tra i vescovi stessi, sosteneva che per il particolare legame che c’è tra l’Italia e il successore di Pietro non potesse che essere quest’ultimo ad avere l’ultima parola. Nel 2017, allo scadere del decennio di Angelo Bagnasco, Bergoglio prese atto dei risultati dell’elezione e fra i tre scelse il più votato – che poi era il suo preferito, avendolo inaspettatamente creato cardinale nel corso del primo concistoro, tre anni prima: Bassetti, il cui nome giunse sul tavolo di Santa Marta insieme a quelli di Franco Giulio Brambilla e Francesco Montenegro, rispettivamente vescovo di Novara e all’epoca arcivescovo di Agrigento. Un compromesso che tagliava con l’epoca dei presidenti incoronati direttamente dal Pontefice senza che i vescovi potessero dire la loro ma che “salvava” il ruolo del primate d’Italia vescovo di Roma. Dopotutto, nel corso del primo incontro con l’episcopato italiano, riunito in San Pietro nella primavera del 2013, Francesco chiarì che un’epoca era finita e che la Cei avrebbe dovuto assumersi più responsabilità, il che avrebbe comportato anche un maggior coraggio nella scelta dei propri vertici. Il tutto nel quadro più ampio della sinodalità e della collegialità, della delega ai rapporti con le istituzioni politiche, sociali e culturali. Niente più intromissioni dall’alto, si diceva, ricordando quando dalla Segreteria di stato si tentava di intervenire perfino nella nomina dei vescovi diocesani italiani, sponsorizzando cordate o vecchi delfini rimasti a nuotare in bacini troppo limitati.
Cinque anni dopo, il quadro è mutato e il Papa ci tiene a sottolineare il suo ruolo fondamentale, dando esplicite dichiarazioni di voto. Per di più ai giornali. (Matzuzzi segue a pagina due)
Lo ha fatto la scorsa settimana nel colloquio con il Corriere della Sera, quando ha chiarito ci vuole “uno che voglia fare un bel cambiamento”. Rispetto a cosa? Alla “mentalità preconciliare che si traveste da conciliare” che più volte – dice – ha riscontrato nella Chiesa italiana. Inoltre, “preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole”. Francesco, di fatto, elimina il novanta per cento dei possibili e fino a prova contraria legittimi pretendenti (ma perché un cardinale è de facto più autorevole di un semplice vescovo?) e restringe il campo a pochi eleggibili: l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, l’arcivescovo di Siena Augusto Paolo Lojudice, l’arcivescovo dell’Aquila Giuseppe Petrocchi (che però è già ultrasettantenne e non distante dall’età canonica del pensionamento, potendo comunque sempre il Papa disporre altrimenti). Ci sarebbe anche il vicario di Roma, il cardinale Angelo De Donatis, che però sembra finito nelle retrovie dopo “l’incidente” del marzo 2020, quando dispose con un decreto la chiusura di tutti gli edifici di culto romani salvo poi essere smentito la mattina dopo dal Pontefice in persona durante l’omelia a Santa Marta. E il vicario fu costretto a tornare sui propri passi non prima d’aver sottolineato che la chiusura era stata concordata proprio con Francesco. In sostanza, è un ballottaggio a due. Francesco ha anche detto che il nuovo presidente sceglierà il segretario, in modo da poter dire “voglio lavorare con questa persona”. Il “bel cambiamento” è partito proprio riguardo a quest’ultima non secondaria posizione, dal momento che sabato scorso l’attuale segretario generale mons. Stefano Russo è stato nominato vescovo di Velletri.
Il Papa, insomma, avoca a sé la scelta del presidente, spiazzando un’assemblea che già aveva da tempo iniziato a orientarsi su diversi profili non del tutto in sintonia con gli espliciti desiderata papali. Un gruppo consistente di presuli, ad esempio, riteneva fosse giunto il momento di eleggere il primo presidente della Cei proveniente dall’Italia meridionale, e in questo caso il nome di punta era rappresentato dall’attuale vicepresidente per il sud, mons. Antonino Raspanti, vescovo di Acireale. Altri puntavano sull’arcivescovo di Modena e vescovo di Carpi, mons. Erio Castellucci, prelato in rapida ascesa e che – particolare non da poco – è anche il referente della Cei per il Sinodo dei vescovi. Invece, no. I vescovi potranno certamente discutere, anche animatamente, fare parresia quanto vorranno, ma sapendo bene che il Papa vuole che votino un cardinale in grado di dare la svolta.
Dopo cinque anni, una retromarcia totale dovuta soprattutto alla “delusione” che Francesco ha provato nel vedere la Chiesa italiana incapace di sintonizzarsi sulle sue frequenze. La ferita della mancata applicazione di quanto detto al Convegno ecclesiale di Firenze nell’autunno del 2015 (sette anni fa), non si è mai rimarginata e il Pontefice l’ha fatto notare a più riprese, come nel maggio di un anno fa, quando ha sottolineato “l’amnesia” che ha coinvolto i vescovi dopo l’appuntamento fiorentino. Non era una battuta: ci sono voluti anni prima che la Cei avviasse il “percorso sinodale” voluto dal Papa, e l’ha fatto solo perché Francesco l’ha preteso. Ciò che sorprende è invece la sottolineatura papale circa la necessità di “fare un bel cambiamento” rispetto alla linea attuale, quasi che la presidenza Bassetti non avesse soddisfatto le aspettative. Bergoglio ha chiara fin dalla sua elezione la necessità di imprimere una svolta alla Chiesa italiana e lo strumento a disposizione, il più immediato, è relativo alle nomine episcopali. Dal 2013 a oggi il panorama dei presuli è mutato e pochissimi sono i trasferimenti da una diocesi all’altra. L’ha riconosciuto lo stesso Papa nell’intervista al Corriere: “Cerco di nominare i preti, come è accaduto a Genova, a Torino, in Calabria. Credo che questo sia il rinnovamento della Chiesa italiana”. Arma a doppio taglio: se da una parte è vero che si è mandata in soffitta la prassi che vedeva un presule trasferito progressivamente da una realtà più piccola a una più grande (il deprecato “carrierismo”), dall’altra accade che non tutti i preti che da una parrocchia si sono ritrovati a guidare una diocesi hanno dato prova di capacità indiscutibili quanto a competenze in fatto di governo. Anche perché il Papa, proprio per favorire la svolta e il cambiamento, sceglie personalità giovani, con un ministero dall’orizzonte temporale assai vasto davanti a sé. Una scommessa, ma anche un rischio.