Il cardinale in manette che imbarazza il Vaticano
Fino a che punto si può tollerare la brutalità cinese? Il dilemma della Santa Sede dopo l'arresto del cardinale Joseph Zen
Pechino non voleva fare del vescovo emerito di Hong Kong un martire, ma lanciare un segnale: nessuno si deve sentire protetto, immune e tutelato
Pechino mostra il pugno. E lo fa in modo eclatante, affinché tutti possano vedere e capire che nulla potrà fermare i programmi stabiliti, che poi sono quelli di ridurre Hong Kong a una delle tante anonime e sottomesse province dell’Impero. In nome della legge, ha subito chiarito il neoeletto governatore John Lee. Arrestare un cardinale di Santa Romana Chiesa, però, va ben oltre. Quanto accaduto la scorsa settimana rappresenta il punto di non ritorno. Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, novant’anni compiuti lo scorso gennaio, era stato arrestato per qualche ora assieme ad altri soci del 612 Humanitarian Relief Fund, impegnato nell’assistenza legale di migliaia di attivisti coinvolti nelle proteste del 2019 contro la legge sull’estradizione. Lo scorso ottobre, l’associazione era stata sciolta per decisioni calate dall’alto e oggi si è registrato il salto di qualità da parte del governo locale eterodiretto da Pechino. L’accusa è per tutti la stessa: collusione con forze straniere.
Le autorità non avevano alcuna intenzione di creare un martire, e per di più così noto e importante. Non si voleva confinare Joseph Zen in una cella di qualche sperduta località dell’interno, magari costretto a pregare in silenzio e a non potersi comunicare. E’ accaduto tante volte nei decenni scorsi, e per rinfrescare la memoria di quel che ha significato essere cristiani nella Cina di Mao è sempre utile rileggere In catene per Cristo curato da Gerolamo Fazzini (Emi), libro che ricordava come “la ragione principale dell’accanimento dei comunisti nei confronti della gerarchia cattolica dei fedeli più impegnati” fosse una sola: “Si voleva a tutti costi spezzare il legame fra la Chiesa cattolica cinese e quella universale, quel legame rappresentato in forma suprema dal Papa”. Adesso, no. La Cina organizza un'Olimpiade dietro l’altra, le sue grandi imprese fanno affari con l’occidente che a giorni alterni predica fedeltà alla laicissima triade libertà-democrazia-diritti umani e venera il Dalai Lama alla stregua di un santone da conferenze intellettuali dimenticando che su quel che fa la Cina in Tibet avrebbe da dire qualcosa. La Cina non può permettersi martiri in catene che facciano parlare il mondo, suscitando errore e proteste dalla durata variabile ma comunque fastidiose. Joseph Zen, novantenne salesiano giramondo, ha consacrato la sua missione a smentire questo volto sereno dell’Impero comunista. Lo fa come può, andando da un capo all'altro del pianeta quando la salute glielo consente, rilasciando interviste e scrivendo testi. Presenziando sui social network, ascoltando le persone. E scendendo in piazza, al fianco delle decine di migliaia di manifestanti che non s’arrendono all'inevitabile destino di Hong Kong, il cui futuro “è la Cina, non l'occidente”, scrisse alla fine del 2019 lo storico Agostino Giovagnoli, dando eccelsa prova di realpolitik. Zen si muove, raccoglie soldi per i manifestanti finiti nelle maglie sempre più strette della giustizia locale dipendente dai desiderata del Politburo pechinese. “Perché il cardinale Joseph Zen è stato arrestato? Perché è la minaccia al regime comunista cinese. Ancora potente forza di resistenza nella Chiesa cattolica di Hong Kong, Zen è l’ultimo simbolo che ispira il movimento democratico non toccato dagli apparati di sicurezza cinesi”, ha scritto sul Washington Post Mark Simon, già primo collaboratore di Jimmy Lai, il ricco editore che ha fatto dell’opposizione a Pechino la propria ragione di vita”.
Zen, però, se la prende anche con la sua Chiesa, quella di Roma e questo è il problema. Da tempo il cardinale, fin da quando nel 2018 fu firmato l’Accordo provvisorio e segreto relativo alla nomina dei vescovi in Cina, non fa mistero di considerarlo una capitolazione totale a Xi Jinping. Un appeasement, la fine di ogni resistenza in nome della fede e della libertà all’ultima grande ideologia sopravvissuta. Per di più accompagnato dal riconoscimento di vescovi “patriottici” che fino a poco tempo fa promettevano obbedienza allo stato e non al Papa. Era inconcepibile, per Zen, stringere la mano a chi radeva al suolo chiese, rimuoveva croci, faceva sparire preti e vescovi non allineati, riconoscendo invece quelli che alla benedizione papale avevano preferito quella del Partito. Profetico fu Zen quando avvertì che l’Accordo non avrebbe fatto altro che rendere evidente lo squilibrio nei rapporti: la Cina che comanda, la Santa Sede ridotta al silenzio. Lo si è visto, in questi anni: non una parola è stata pronunciata sulle manifestazioni a Hong Kong e sulla loro repressione, mai un messaggio dal Papa all’Angelus o in un’udienza generale è stato inviato a chi lottava nel nome del bene più supremo, che è quello della libertà. E quando Francesco disse poche parole sugli uiguri, ricordandone la persecuzione, fu subito richiamato all’ordine da un maggiorente del ministero degli Esteri cinese: “Le sue dichiarazioni sono basate sul nulla. Tutti i gruppi etnici nel paese godono del pieno diritto alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla libertà religiosa”. Fine della discussione. Tiepida è stata la reazione della Santa Sede alla notizia dell’arresto, un comunicato freddo della Sala Stampa in cui si diceva che la vicenda era seguita con preoccupazione. Non una parola di più. Ben più drammatico quanto ha pubblicato, il giorno dopo – e quindi con il porporato libero su cauzione – la diocesi di Hong Kong. Un comunicato che dava tutto il senso della tragedia che incombe su quella piccola ma dinamica Chiesa d'oriente: “La diocesi cattolica di Hong Kong è estremamente preoccupata per la condizione e la sicurezza del cardinale Joseph Zen e noi stiamo offrendo preghiere speciali per lui. Noi abbiamo sempre sostenuto il principio di legalità. Noi confidiamo che in futuro continueremo a godere della libertà religiosa sulla base della Legge fondamentale. Chiediamo con forza alla polizia e all’autorità giudiziaria di gestire il caso del cardinale Zen secondo giustizia, prendendo in considerazione la nostra concreta situazione umana. Come cristiani, è nostra ferma convinzione che il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”.
La libertà religiosa, dunque. Il problema, diceva Zen al Foglio un paio d’anni fa, quando l’eco delle proteste di massa nell’ex colonia era ancora forte, è che “non c’è libertà religiosa perché non c’è libertà. Noi, e lo ripeto, non dobbiamo aspettarci nulla. In Cina perseguitano le Chiese perché non c’è libertà per nessuno. Purtroppo, sia a Hong Kong sia a Roma, si cerca di rabbonire Pechino, mostrandosi così arrendevoli. In questi ultimi anni non una parola di rimprovero è giunta da Roma riguardo a tutte le malvagità commesse dalla Cina. Tutto il mondo vede come i giovani vengono picchiati, tutti. Nel silenzio generale”.
Le due dichiarazioni – diocesana e romana – sembrano confermare se non una posizione diversa rispetto alla Cina, quantomeno una diversa percezione del pericolo. Roma appare imbrigliata da un accordo che lo stesso segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, ha auspicato possa cambiare nel corso di un’intervista concessa di recente ad Acistampa. Non è dato sapere in che modo, ovviamente, proprio perché la Santa Sede appare fin dal principio delle negoziazioni un attore subordinato rispetto alla volontà cinese. Stride la differenza nei toni rispetto alla veemente protesta che il Vaticano ha reso pubblica contro Israele per i disordini durante il funerale della giornalista palestinese di al Jazeera uccisa in uno scontro a fuoco a Jenin, in Cisgiordania. Qui, l’incaricato d’affari della Santa Sede non ha avuto remore diplomatiche nell’accusare il governo israeliano di aver violato la libertà religiosa, aggiungendo che “non è la prima volta” che accadono momenti di tensione tra le Parti, subito seguito da dichiarazioni altrettanto dure del Patriarca latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa: “Siamo sconvolti per le modalità ingiustificabili di quello che è accaduto e vogliamo denunciare e condannare in maniera chiara e inequivocabile”.
Roma ha cercato per decenni una breccia in cui infilarsi, un canale che potesse favorire lo sviluppo di un dialogo che interessa assai più la Chiesa cattolica che il regime di Xi Jinping. Quattro anni fa l’ha trovato, favorendo la stipula dell’accordo. Ma a che prezzo? Quello del silenzio, appunto. Lo stesso cardinale Parolin, il giorno dopo l’arresto di Zen si limitava ad auspicare che tale prova di forza delle autorità locali non mettesse a rischio il rinnovo dell’Accordo, constatando comunque che il confratello novantenne “era stato trattato bene”. “Non so perché la Chiesa stia capitolando davanti al regime cinese. Non hanno in mano niente. Tutto il mondo sta vedendo e capendo qual è il sistema cinese, un sistema fondato sulla menzogna”, diceva Zen.
Le ragioni di Roma sono note, non c’è alcun mistero da svelare o complotto da portare in superficie: semplicemente, Roma considera la Cina l’ultima grande frontiera da valicare. I dati, anche quelli indipendenti, testimoniano che lì la fede c’è e potenzialmente quello è il paese con più cristiani sulla Terra. Roma vuole che vengano allo scoperto, che escano dalle catacombe. Niente più Chiesa ufficiale e patriottica opposta a quella sotterranea: un’unica Chiesa cinese che rispetti le autorità locali e sia in comunione con il Papa di Roma. Questo è il fine e ogni strada per raggiungerlo va esplorata, anche al costo di penose e dolorose concessioni. Che poi sono quelle richieste a suo tempo da Xi Jinping, quando disse che “le religioni in Cina devono avere un orientamento cinese” adattandosi “alla realtà socialista”. Notava a tal proposito il gesuita Benoît Vermander sulla Civiltà Cattolica che “rendere più cinesi le religioni” significa “aderire alla definizione di cultura cinese proposta dalla stessa relazione del presidente Xi al XIX Congresso”, definizione integralmente “di natura politica”. Insomma, se le religioni vogliono avere uno spazio di manovra in Cina, devono sviluppare “più valori religiosi cinesi, più simboli religiosi cinesi e una maggior pratica della fede cinese”, considerando il contesto, che è quello di “una nuova accentuazione del ruolo di guida del partito in tutti gli aspetti della vita sociale e culturale”.
Il problema è che mentre Roma si mostra disponibile a dialogare e tende la mano a Xi, dall’altra parte il muro continua a essere ben difeso. Hong Kong “era una delle città asiatiche più libere e aperte. L’hanno trasformata in uno stato di polizia”, ha detto il cardinale Charles Maung Bo, salesiano come Zen, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle conferenze dei vescovi cattolici d’Asia. Il cardinale Bo è uno di quelli che mal sopporta la linea realista vaticana, i silenzi sulle persecuzioni in Cina e i tatticismi diplomatici. In un comunicato da lui firmato pochi giorni fa e seguito a un'intervista sulla Nuova Bussola Quotidiana, l’ha fatto capire, quando si è detto “consapevole dei recenti attacchi propagandistici dei media pro Pechino di Hong Kong contro la Chiesa e della crescente autocensura tra i leader religiosi dovuta alle circostanze”. Difesa a spada tratta “del mio fratello Joseph Zen”, che nulla di male ha fatto: “In uno stato di diritto, fornire assistenza a persone che devono affrontare un’accusa, facendo fronte alle loro spese legali, è un diritto giusto e accettato. Come può essere un reato aiutare gli imputati ad avere una difesa e rappresentanza legale?”. Quindi, la fotografia della realtà: “Per il popolo di Hong Kong è ora sempre più difficile parlare liberamente, quindi quelli di noi – fuori da Hong Kong – che hanno una voce, devono usarla nel loro nome, dedicando le nostre preghiere e i nostri sforzi a mostrare solidarietà e sostegno per loro, nella speranza che un giorno le libertà vengano ripristinate”. Tutto ciò considerando che, conclude il porporato birmano, “la libertà di espressione, la libertà di stampa, la libertà di riunione e di associazione e la libertà accademica sono state tutte smantellate. I primi segnali indicano che la libertà di religione o di credo, un diritto umano sancito dall'articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui Hong Kong è parte, è minacciata”. Roma è dunque chiamata a scegliere quanto sia sacrificabile sull’altare del dialogo con la Cina. Capire cioè quale sia il limite sostenibile di un silenzio che perdura anche davanti a un cardinale finito in manette perché reo di combattere per la libertà.