Il cardinale Dieudonné Nzapalainga, guerriero disarmato
“Un gruppo di ribelli armati fino ai denti si presentò al cancello dell’arcivescovado”. Comincia così il diario del volto emergente della Chiesa africana e vescovo in una terra martoriata dai conflitti
Pubblichiamo un estratto di “La mia lotta per la pace. Centrafrica, un cardinale per il dialogo”, il libro scritto da Dieudonné Nzapalainga con Laurence Desjoyaux (Libreria Editrice Vaticana, 176 pp., 15 euro). L’autore è cardinale arcivescovo di Bangui
Domenica 24 marzo 2013. Una data scelta male: hanno osato attaccare il giorno della festa delle Palme in un paese a maggioranza cristiana! Che simbolo… Da alcune settimane stava montando la tensione a Bangui, la capitale di cui io sono l’arcivescovo. Sapevo che era finita, che il potere alla guida del paese non avrebbe retto e che il presidente François Bozizé non avrebbe resistito all’onda di piena in arrivo. Erano ormai diversi mesi che i ribelli della Seleka, “coalizione” in lingua sango, erano entrati nella Repubblica Centrafricana. Il 10 dicembre avevano attaccato nel nord del paese.
Era un gruppo eterogeneo, con molti uomini venuti dal Ciad e dal Sudan, paesi confinanti. Tra le sue file c’erano anche mercenari che anni prima avevano aiutato François Bozizé a prendere il potere e che erano rimasti delusi dei pochi vantaggi che ne avevano tratto. Reclamavano fino a 5.000 euro a testa! Erano poi stati cacciati da Bangui, ma si erano stabiliti nel ventre molle del paese. Essendo armati, controllavano di fatto intere regioni in cui l’amministrazione e l’esercito erano inesistenti. Vivevano sulle spalle della popolazione, approfittando delle risorse minerarie per acquistare un numero crescente di armi. Con la Seleka vedevano ormai venuto il tempo della riscossa.
L’attacco nel giorno della festa delle Palme. “Prendevano di mira sacerdoti, suore, pastori”
Agli inizi del loro movimento, i ribelli avevano elencato una sfilza di rivendicazioni sociali, politiche e militari, ma assolutamente non di carattere religioso. Ben presto, però, le informazioni provenienti dal terreno riferivano di saccheggi, distruzioni di chiese e attacchi che prendevano di mira luoghi in cui risiedevano sacerdoti, suore o anche pastori. La prima cosa che i gruppi armati facevano al momento di occupare una qualsiasi località era mettere fuori uso la rete telefonica. Ma nella maggior parte dei casi noi venivamo preallertati del loro arrivo. E se così non accadeva, c’era sempre uno dei nostri religiosi che saltava su una bicicletta, pedalava per cinquanta chilometri se necessario, fino a trovare un telefono per trasmettere le informazioni. Come spesso avviene nei conflitti, prefetto, militari e medici si davano alla fuga – non, però, i religiosi. Avevamo quindi un’idea chiara dell’avanzata e della forza crescente della Seleka, mentre la presidenza brancolava nella nebbia.
Quel 24 marzo ci furono scontri alle porte di Bangui. Il contingente sudafricano, che all’epoca appoggiava l’esercito centrafricano in cambio di diritti di sfruttamento minerario, contava 500 uomini e due elicotteri. I ribelli arrivarono in folla, con i bambini soldato in prima linea come carne da cannone. Erano drogati e si credevano invincibili: non indietreggiavano nemmeno quando si trovavano sotto tiro. Se uno cadeva, un altro prendeva il suo posto. I sudafricani sono stati sopraffatti in men che non si dica.
Prima che i ribelli entrassero in città ho domandato al mio vicario generale che cosa intendesse fare. Eravamo consci che stavano sopraggiungendo tempi difficili. Gli ho detto che poteva tornare in famiglia nell’attesa che la situazione si calmasse. Non volevo che i suoi cari potessero pensare che, se fosse accaduto qualcosa, io avevo voluto sacrificarlo. Per parte mia avevo già preso la mia decisione. Siamo rimasti entrambi.
Ma non avremmo certo aspettato a braccia conserte! In fretta abbiamo studiato una strategia nel caso che i ribelli fossero arrivati all’arcivescovado. Durante la loro avanzata nell’interno del paese avevo sentito parlare spesso di saccheggi. Ormai conoscevo il loro modo di procedere. Per prima cosa abbiamo deciso che se si fossero presentati alla porta sarei andato ad aprire. “Se a me succede qualcosa, tu potrai continuare la tua missione”, ho detto al mio vicario. Poi abbiamo pensato agli automezzi. In Centrafrica sono un bene raro e sapevo che erano quello ciò che i gruppi armati cercavano per prima cosa. Qualche settimana prima mi ero recato a Bambari, una città nel centro del paese che aveva già subito un attacco della Seleka. In vescovado avevo espresso la mia sorpresa a mons. Edouard Matos nel vedere tre macchine. Come aveva fatto a preservarle intatte, con tutto quello che avevamo sentito dire delle razzie dei ribelli?
Ho tirato fuori la corona del rosario: l’ho agitato davanti al loro viso. I soldati mi guardavano a bocca aperta
Mi aveva spiegato il suo metodo: “Ho chiamato un meccanico esperto perché venisse a smontare dei pezzi essenziali. Li abbiamo imboscati alcuni lui, altri io, ma senza dirci l’un l’altro dove. Così, se fossero venuti e mi avessero puntato una canna alla tempia, avrei potuto mostrare solo i pezzi che avevo nascosto io!”. Avevo memorizzato quell’esperienza e abbiamo fatto lo stesso all’arcivescovado di Bangui. Tanta attenzione alle autovetture può sembrare ridicola davanti a tutte le vite umane che i ribelli avrebbero falciato, ma si trattava del nostro bene più importante, essenziale per il nostro ministero, e il seguito avrebbe mostrato quanto quei veicoli sarebbero stati la nostra forza.
Quando la Seleka è entrata in Bangui, un ex consigliere di Bozizé, un cristiano, si è precipitato da me. “Sto venendo dal centro città, là stanno ammazzando tutti!”. Situato com’è ai margini della capitale, affacciato sul fiume Oubangui, il nostro arcivescovado non si trovava ancora nell’occhio del ciclone: quell’uomo insisteva perché fuggissi finché ero in tempo. “Ho portato una piroga proprio qua sotto per lei”, mi assicurò. “Il timoniere è pronto a portarla all’altra riva, in Repubblica democratica del Congo. Potrà ritornare fra qualche giorno, quando la situazione si sarà calmata!”.
Pochi minuti e potevo essere al sicuro. Dalla mia terrazza osservo spesso l’andirivieni dei pescatori e dei commercianti dall’una all’altra riva. Posso distinguere le abitazioni sulla sponda congolese. Quell’uomo voleva solo mettermi in salvo. « Noi cattolici di Bangui abbiamo tanto atteso per avere finalmente un vescovo degno della sua missione. Bisogna che lei resti in vita!”. Ma per me quella proposta era fuor di discussione. “Se ho fatto la scelta di essere vescovo, non è per abbandonare i miei fedeli nei momenti di difficoltà”, ho risposto. “Sono pronto a morire qui”. Ho visto la sua piroga allontanarsi verso il Congo fino a diventare un puntino sull’acqua. Per la seconda volta in due giorni avevo scelto di rimanere in una città che sprofondava nel caos.
“Tu-tum, tu-tum!”. Stavano già scuotendo il cancello. Era un gruppo di venticinque ribelli, accatastati su un fuoristrada, un Land Cruiser, armati fino ai denti. Indossavano uniformi di ogni foggia, rubate ai militari nelle città che avevano occupato prima di arrivare a Bangui. Un attimo dopo ho visto entrare nel cortile quattro uomini a fucile spianato. Li ho chiamati: “Ragazzi, per favore, venite qui!”. Si sono avvicinati. Ho chiesto cosa cercassero”. Il responsabile di qui? Sono io. Fate venire i vostri compagni che sono rimasti sulla macchina. Prendete tutte le vostre armi e munizioni. Ne avrete bisogno, qui”. Non volevo lasciar loro la possibilità di aggredire altre persone nei paraggi. A loro interessava prendere posizione attorno all’arcivescovado per tenere i luoghi sotto controllo, ma ho detto che si raccogliessero nella sala d’attesa dei visitatori che vengono a trovarmi. Alcuni di loro hanno fatto il giro dell’edificio e adocchiato il mio 4×4 dal quale avevamo smontato le ruote. “Ve lo potrete prendere, non preoccupatevi”, ho detto loro. “Tutto quello che c’è qui è vostro. Ma prima venite!”. Ho fatto cenno al custode di ritirarsi, li ho fatti entrare tutti nel mio ufficio e ho chiuso la porta. Ero là da solo con venticinque uomini armati. Per attenuare la tensione mi sono presentato con calma. “Io sono l’arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Il mio compito è parlare di Dio e predicare la pace. E’ quello che faccio in questo paese, tanto con i vostri responsabili come con i vostri nemici. Adesso avete preso il potere. Avete avuto ciò che volevate. Non so perché siate venuti qui”, ho detto loro. Silenzio.
Avrebbero potuto farmi fuori senza difficoltà. Ma sono andati via. La mia ora non era ancora giunta
Ho notato che uno di quegli uomini indossava un gris-gris, il tipico amuleto che spesso ostentano i musulmani, e altri amuleti ancora. Mi sono frugato in tasca, ho tirato fuori la corona del rosario da cui non mi separo mai e gli ho detto: “Guarda, amico: il mio gris-gris è questo!”. L’ho agitato davanti al suo viso. “Ma fra il tuo gris-gris e il mio nessuno può dire quale sia il più forte, eh?”. I soldati mi guardavano a bocca aperta. Mi sono rimesso il rosario in tasca e: “Qui c’è la casa di Dio. Non voglio che il sangue scorra. Adesso vi chiedo di andare via. Alzatevi e andate”. Il loro capo ha replicato: “Noi siamo venuti per un sopralluogo”. Ho cambiato tono. “Non c’è niente da guardare qui. E adesso, uscite”. Mi sono alzato e sono andato ad aprire la porta. Ormai gridavo: “Uscite! Fuori tutti!”. Portavano con sé fucili, lanciagranate, armi lunghe fino ai piedi di cui non conosco il nome. Si sono avviati verso l’uscita e sono risaliti sul loro fuoristrada. Io sono rimasto al cancello, guardandoli nell’attesa di vederli partire. Avranno parlato fra loro cinque minuti. Sapevano che lì all’arcivescovado c’erano delle vetture: è quello che loro cercavano. E io lì, davanti al cancello, disarmato. Avrebbero potuto farmi fuori senza difficoltà. Ma il motore ha ruggito e sono andati. Ho poi attribuito il tutto alla potente intercessione della Vergine Maria. E’ una cosa che puoi credere solo se l’hai vissuta: cacciare i ribelli con una semplice corona del rosario! La mia ora non era ancora giunta. (…)
Il 5 dicembre 2013, alcuni mesi dopo la presa di Bangui da parte della Seleka, gli anti balaka sono entrati nella capitale assetati di vendetta. Sono cominciate le violenze. Era giovedì, e dalla domenica andavo dichiarando che gli anti balaka non erano cristiani. Un cristiano non uccide. Quello che ho visto e udito durante quei tre giorni non aveva nulla di cristiano. Il mio messaggio era netto, dimodoché nessuno potesse affermare che quelli agivano su ordine della Chiesa. Volevo anche evitare che i fedeli, terrorizzati dalla Seleka per nove mesi, si identificassero negli anti balaka e andassero a ingrossarne le file.
Il giorno in cui i miliziani hanno attaccato la capitale, i militari della Misca sono venuti a dirmi: “Questi anti balaka che stanno arrivando sono dei folli!”. L’imam Kobine della piattaforma delle confessioni risiedeva nell’8° arrondissement di Bangui, popolato da molti cristiani. Nel timore di rappresaglie, i musulmani, lì in minoranza, avevano abbandonato il quartiere per rifugiarsi in un altro chiamato PK5, a maggioranza musulmana. Con i militari abbiamo deciso di andare a prendere l’imam per farlo uscire da dove abitava. Per strada gli ho telefonato: “Veniamo a prenderti, bisogna che lasci il tuo quartiere se vuoi avere salva vita. Devono venire anche tua moglie e i tuoi figli “. Siamo arrivati a casa sua e, al momento di salire in macchina, ho visto che con sé non portava niente: gli ho consigliato di prendere un minimo di effetti personali.
E’ rientrato in casa e ne è uscito con il Corano e la stuoia per la preghiera. Ho insistito: “Non sappiamo quanto durerà tutto questo”. Lui mi ha detto che in ogni caso andava bene così. Ne ho tratto una bella lezione. Io al suo posto avrei voluto prendere il mio computer... e questo e quello. Lui: Corano e stuoia di preghiera. Pochi giorni dopo, la sua casa è stata depredata e distrutta, ha perduto tutto... L’ho portato direttamente da noi, in arcivescovado, dove sua moglie e i figli l’hanno raggiunto qualche giorno dopo. Ogni tanto mi giungevano certi stridori alle orecchie: “Ma che se ne vada dai musulmani!”. Ma Kobine era per l’appunto un fratello, avevamo cominciato a vivere assieme dall’inizio della guerra, a resistere, a combattere. Non si poteva desistere proprio allora.
Io accolgo l’imam a casa mia. E gesti così siano messi in pratica da altri: che il musulmano accolga il cristiano
La camera riservata ai vescovi di passaggio è diventata la sua per diversi mesi. Anche la nostra vicinanza si traduceva in testimonianza. Nei giorni seguenti, a Bangui si sono moltiplicate le violenze ai danni dei musulmani. I morti si contavano a centinaia, venivano attaccate le botteghe come pure le moschee. Coloro che erano stati oppressi si vendicavano. Nel mezzo, i militari francesi della forza Sangaris tentavano, a volte senza successo, di interporsi come potevano, disarmando gli uni e cercando di evitare che venissero linciati dagli altri. Ricordo un’intervista che diedi a Radio France International in quei giorni, quando spiegai: “Io accolgo l’imam a casa mia, abita in arcivescovado. E gesti di questo genere vogliamo vederli messi in pratica da altri. Che il musulmano accolga il cristiano, che il cristiano accolga il musulmano. Sarà una testimonianza di unità”. Naturalmente un gran numero di abitanti di Bangui non poteva recepire un simile messaggio, essendo già centinaia di migliaia gli sfollati in città. Ma proclamarlo significava continuare ad essere un punto di riferimento morale, un faro, e questo poneva la Chiesa cattolica al di sopra del caos.
Sabato 20 agosto, alle ore 12, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, interverrà al Meeting di Rimini in occasione dell’incontro “Artigiani di pace. La passione di conciliare”. Con lui, saranno presenti mons. Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca; e il patriarca di Gerusalemme dei latini, mons. Pierbattista Pizzaballa.
Editoriali
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l'anticipazione