Le trasformazioni indotte dalla tecnica arrivano a minacciare la fede
La messa e la massa. Se a pregare è una comunità di telefonisti e fotografi
Con il dilagare e il moltiplicarsi tecno-comunicativo delle sempre nuove forme di cultura di massa, niente è più come prima: né parlare né ascoltare, né sapere né leggere, né sentire musica né studiare, né avere esperienze né scriverne, né andare a messa né pregare…
Dopo aver letto sul Foglio del 6-7 agosto l’articolo a tutta pagina di Matteo Matzuzzi “Il tradimento dei chierici” sulla crescente e falsificante “spettacolarizzazione della messa” ho capito ancora meglio che le trasformazioni culturali e diciamo pure antropologiche indotte dalla tecnica non risparmiano niente e arrivano a minacciare non superficialmente la fede, le fedi religiose. Se gli atti di culto non vogliono essere svuotati di senso e trasformati in altro, sarà sempre più necessario capire bene “che cosa si sta facendo” quando ci si rivolge a Dio. Se ogni singolo atto della nostra vita cambia perché è cambiato l’essere umano che lo compie, anche l’identità e la sostanza culturale della fede religiosa rischiano di venire stravolte. E’ avvenuto anche in passato. Ma ogni epoca ha i suoi problemi.
Matzuzzi forse penserà che il mio è solo un discorso “culturalistico”. Ma credo che anche le religioni, anche il rito e la liturgia siano cultura e abbiano bisogno di cura culturale. Se non siamo più capaci di controllare gli automatismi “social” del nostro sistema nervoso e delle nostre abitudini quotidiane in rapporto con le nuove macchine, allora finisce per cambiare anche la messa, celebrazione e partecipazione. Anche in questo ordine di cose, un po’ di senso storico, di senso del passato, di autoanalisi psicologica e morale servono. Anzitutto nei chierici, nei sacerdoti, prima che nei fedeli. Come il primo problema della scuola è la formazione degli insegnanti, così (suggerisce Matzuzzi) il primo problema della religione è oggi la formazione dei sacerdoti.
Il suo discorso è costruito su due punti. Il primo è una bella frase di Papa Francesco: “Il sacerdote che presiede la celebrazione dice: ‘In alto i nostri cuori’, non dice: ‘In alto i nostri telefonini per fare la fotografia!’”.
Il secondo punto è un fatto di cronaca. Domenica 24 luglio un ventisettenne diacono, nel corso di una gita con un gruppo di ragazzi, anche spinto da fortuite circostanze avverse, ha finito per celebrare la messa al mare, immersi in acqua e con un materassino gonfiabile come altare. La locale Procura lo ha indagato per “offesa a confessione religiosa”, il giovane e un po’ sprovveduto sacerdote si è pentito della sua leggerezza. La questione, dice Matzuzzi, è che bisogna “sapere che cosa si fa” quando si celebra una messa, che cos’è l’Eucarestia, che cos’è il mistero pasquale di Cristo. La messa immersi in mare forse è troppo. Ma mi è capitato di vedere nell’Enciclopedia del Cristianesimo con prefazione del cardinal Martini, pubblicata da De Agostini, la foto di una “Messa all’aperto durante una gita in montagna” in cui come altare si intravede una roccia piatta.
Niente di assurdo o blasfemo quando c’è una decenza ispirata da consapevolezza vera, oltre che da semplice buon senso religioso. Se questo manca, perfino in presenza del Papa il senso della messa può essere vanificato. E’ stato Bergoglio stesso a dirlo: “Vi dico che mi dà tanta tristezza quando celebro qui in Piazza o in Basilica e vedo tanti telefonini alzati non solo dai fedeli, anche da alcuni preti e anche vescovi. Ma per favore! La messa non è uno spettacolo: è andare a incontrare la passione e la resurrezione del Signore”.
Sarebbe il caso di chiedersi, credo, se e in che misura le masse cristiane e cattoliche sono tali o non sono anzitutto la presenza di una folla, massa, pubblico, platea, che consuma turisticamente uno spettacolo da fotografare. Si confonde la propria presenza, che deve essere presenza reale e piena, cioè mentalmente, culturalmente e spiritualmente consapevole, con una presenza da attori-fotografi testimoniata da una foto da far scorrere più tardi sul cellulare e spedire subito ad altri spettatori, assenti in tutti i sensi.
La comunità e la socialità è oggi fatta di telefonisti e di fotografi. Si fa una cosa per fotografarla e pubblicizzarla. La foto è sentita come più reale della realtà. Anche le aggressioni, anche gli atti sadici, anche i crimini si “realizzano” in quanto fotografati, inviati, diffusi, pubblicizzati via telefono. Insomma: non so chi sono, dove sono e cosa faccio se non me lo dice, se non lo comunica il mio “santo” smartphone.
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