LA GRANDE TRISTEZZA
Storia, economia, politica e società secondo Benedetto XVI
Rileggere Ratzinger fa bene alla salute (mentale), alla ragione e alla libertà. Sintesi di un incontro con duecento giovani su “La Vera Europa”
Leggere Ratzinger di fronte a duecento giovani (neolaureati, famiglie appena formate, i primi figli) è stata la verifica di una sua frase che ho mandato a memoria e che da anni mi accompagna: “Bisogna che l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà”.
La vera Europa (Cantagalli) raccoglie discorsi e conferenze di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI in cui colpisce innanzitutto il senso della storia come elemento fondamentale della coscienza di sé che ogni cristiano dovrebbe avere. Da un teologo che ha insegnato teologia fondamentale, che per scelta accademica si è dedicato all’apologia della fede, che è stato custode dell’ortodossia cattolica, e infine Papa, ti aspetteresti più l’enunciazione di dogmi che il racconto di un’esperienza maturata nella storia, la fissazione di princìpi più che la trama dell’incontro della fede con le esigenze esistenziali, sociali, economiche e politiche che via via si affacciavano sul proscenio della storia.
Un’immensa capacità analitica che nella ricerca delle cause della situazione culturale e sociale contemporanea non si ferma finché non arriva alla questione di fondo (ma operante in ogni situazione), scende sino al problema della verità dell’essere, della natura delle cose e dell’uomo.
In questo lavoro di scandaglio incontra un tema che scorre come un fiume carsico in tutto il libro, emergendo in alcuni passaggi espliciti: il potere.
Ratzinger fa una constatazione: l’essere ha una densità morale. La modernità ha tagliato i ponti con questa evidenza originaria e invece di riconoscere ciò che è bene e ciò che è giusto pretende di determinarlo. Nasce così il moralismo, la morale ridotta all’osservanza di norme. Quello odierno ha le sue parole chiave: giustizia, pace, conservazione del creato, ossessione per il valore dell’integrità fisica, “che porta a continui moniti su sostanze pericolose ed è una patologia che genera angoscia panica e deformazione di prospettive”; la sofferenza deve scomparire, la vita deve essere solo piacevole, la possibilità (poter fare tutto ciò che si è in grado di fare) resta come unico criterio. Chi ha il potere scientifico diventa nuova classe dominante, e l’uomo diventa un prodotto. Come dice Lewis, citato da Ratzinger: “Rinuncia alla tua anima in cambio del potere…, ma il potere acquistato non ci apparterrà. L’uomo che sceglie di trattare sé stesso come materia prima, materia prima sarà”.
L’uomo, invece, “deve essere intangibile, ma ciò non è possibile se non acquista un senso nuovo la dignità della sofferenza. Imparare a vivere significa anche imparare a soffrire”.
La questione di fondo posta da Ratzinger è dunque quella della dignità e intangibilità persona, dei suoi diritti e, quindi inevitabilmente del suo rapporto con il potere. Per capire chi è l’uomo, così come l’ha capito l’Europa nella sua storia, non possiamo fare a meno – dice – di tre cose: della ragione, della libertà e della fede cristiana che le salva in quanto tali. Quindi, dell’idea di Dio come creatore, perché all’inizio di tutto non c’è l’irrazionalità del caos che poi si evolve, ma il logos, un pensiero creatore amante della vita, la nostra vita, sino a essersi fatto nostro compagno in Gesù Cristo. La dignità e la libertà dell’uomo o si radicano qui, nel Dio che ci ha fatti a sua immagine, e qui nasce il diritto, o non ci sono argomenti validi per opporsi e resistere alla legge del più forte. (Dice Rémi Brague che “Non esiste il diritto del più forte, non c’è diritto che non sia diritto del più debole”).
Per questo “la fede cristiana non ha riconosciuto allo stato il dominio sul suo proprio ambito”, ha bandito l’idea della teologia politica e promosso la laicità dello Stato, in cui convivono convinzioni diverse e la cui unità è fondata sulla natura umana. Uno stato, proprio perché laico, si fonda su princìpi che lo precedono.
“Ridefinire l’Europa, allora, non è nostalgia della storia, ma responsabilità per l’umanità oggi. L’Europa è una “una grandezza storica e morale” modellata dalla separazione di fede e legge, che implica la razionalità del diritto, cioè un suo rapporto con la verità. “Uno stato fondato ateisticamente, in base al principio della totale autonomia della ragione, “alla lunga non è uno stato di diritto”.
Ma questa è esattamente la pretesa della modernità: la ragione, ridotta a ragione scientifica, si pretende totalmente indipendente da qualcosa che la preceda e relega il fatto religioso nel privato.
Hobbes dice che “Auctoritas non veritas fecit legem”, ed è un principio che Ratzinger riconosce positivamente per il cammino di autonomizzazione della politica, ma avverte che la legge della maggioranza non vale in assoluto; se non c’è rapporto con la verità dell’essere non c’è differenza tra diritto e abuso. C’è un’ecologia anche dell’uomo, una sua natura che va rispettata. Lo Stato riconosce i diritti, non li conferisce, non può arrogarsi la prerogativa di stabilire chi è soggetto di diritti e chi no. Oggi una ragione che ha relegato il fatto religioso (“il grido dell’uomo”, lo definisce a un certo punto) nel privato pretende materialisticamente di definire e produrre l’uomo (geneticamente e socialmente), in realtà lo aliena, riducendolo a materia, lo rende estraneo a sé stesso.
Invece anche la ragion pratica (la conoscenza morale) è “ragione in senso pieno”, e le conquiste morali dell’umanità sono ragionevoli e vere come quelle scientifiche. Più vere perché più decisive. La fede è una risorsa per questa ragione (e quindi per la politica), perché crea l’ambito in cui può compiersi. La morale cristiana non è un dovere particolare, ma la difesa dell’uomo dalla sua eliminazione, avamposto della libertà umana.
Ora, in questa situazione, Ratzinger denuncia due tentativi e/o tentazioni: un realismo politico cinico razionalisticamente fondato e una reazione a esso fondata su un idealismo che punta alla difesa o al ritorno dei “valori cristiani”. Le due posizioni hanno un punto in comune: la conquista dell’egemonia, il potere.
Ma – ammonisce Ratzinger – “al cinismo dell’ideologia, all’ingiustizia non bisogna contrapporre un’altra ingiustizia”. Resta quindi aperto il problema: come ci si confronta con il potere?
È inevitabile per me associare l’intangibilità dell’uomo da parte del potere di cui parla Ratzinger, all’irriducibilità dell’io, alle pretese del potere di cui parla don Luigi Giussani. E quando Ratzinger parla di sofferenza associo questa sua parola a quella che don Giussani usa per definire il sintomo dell’insoddisfazione del cuore dell’uomo di fronte alle profferte del potere: tristezza. Non c’è potere o successo che possa colmare il desiderio del cuore dell’uomo, che è fatto di infinito e per l’infinito. Per questo ogni potere (anche quello in famiglia o sul lavoro) odia la religiosità dell’uomo (Giussani), il suo essere creatura (Ratzinger). È la stessa intuizione di Václav Havel quando parla del “potere dei senza potere” (“Non c’è nulla da fare: la voce dell’Essere non può essere zittita. Siamo esposti a questa voce, a dispetto di tutto, nonostante essa, tutta ricoperta di detriti, possa assumere la forma di memoria di memorie, di nostalgia della nostalgia o desiderio del desiderio”).
Il problema del potere moderno non è il comando, ma il possesso della coscienza. Don Giussani faceva cantare spesso Ho visto un Re di Enzo Jannacci. E commentava: “Il re è il simbolo del potere di questa società che odia questa nostra tristezza che in fondo è la carne vivente di quella domanda che costituisce il cuore dell’uomo. È il primo segno dell’uomo, dell’umano (dice la canzone che ‘sempre allegri bisogna stare ché il vostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam’). Coloro che hanno il potere diventano tristi se ti vedono piangere. Comunque la mordenza di questo canto di Jannacci è di grande attualità perché ognuno di noi può cedere di fronte a una modalità di conduzione della società in cui diventano ovvi il limite e il soffocamento dentro il quale la nostra umanità è resa più prigioniera e sempre più insepolcrata”.
Teniamoci stretta questa tristezza. Fino a quando un uomo ce l’ha vuol dire che desidera altro e oltre rispetto a quello che il potere gli può dare, vuol dire che non gli ha consegnato la sua anima.
Il lavoro
L’Europa medievale nasce sulla scoperta del suo valore (Ora et labora) e Ratzinger dice che ci vorrebbero oggi uomini come Benedetto da Norcia. Uno degli affreschi della grotta di Subiaco rappresenta il “miracolo del falcetto”, lo strumento di lavoro perso nel fiume che Benedetto fa riattaccare al manico tenuto in mano dal barbaro che ha accolto in convento e a cui insegna a lavorare i campi. Così è stato anche per l’Europa unita, dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Europa, per perseguire l’ideale della pace, rinasce come comunità economica (Ceca e Mec). Ratzinger loda il realismo politico di Adenauer, De Gasperi, Schumann, De Gaulle, che vede radicato nell’ethos cristiano riconosciuto come ethos di ragione.
Critico del materialismo marxista e della sua convinzione che sia l’economia a determinare le convinzioni religiose, Ratzinger (che pensa invece il contrario, vedi protestantesimo ed etica protestante) è anche molto duro con il liberismo che si affida totalmente alle cosiddette regole del mercato. Anche questa per lui è un’ideologia ultimamente deterministica. Le regole del mercato esistono solo se esiste un senso morale di fondo che le sostiene.
Il materialismo non è la negazione dello spirito, ma pensare che lo spirito nasca a un certo punto dell’evoluzione dalla materia. È come dire che sistemata l’economia, la vita sociale e la felicità delle persone, lo sviluppo, la crescita, sono garantiti. Oggi anche la Chiesa – dice amaramente Ratzinger – pensa che sia più urgente risolvere i problemi economici, sociali e politici e poi parlare di Dio. Immemore del fatto che, dimenticato Dio, poi ci si dimentica dell’uomo.
Come c’è un cinismo dell’ideologia che giustifica ogni mezzo che sembri atto allo scopo, così c’è un cinismo degli affari in cui l’utile prende il posto del bene. Ma per avere come scopo il bene comune dell’intera famiglia umana – ammonisce – non bastano preoccupazioni umanitarie aggiunte al liberismo, servono energie morali completamente nuove. Nello stesso tempo una morale che non conosce le leggi economiche è sterile moralismo. La Chiesa, quindi, non deve perdere “il legame tra autorità, utilità e verità”. In questo campo il suo compito è soprattutto quello dell’educazione.
Ora, io credo che anche alla base di un fenomeno come quello della great resignation, ci sia una concezione del lavoro che non è più il mio contributo al bene e al benessere di una società e alla trasformazione del mondo in virtù di un ideale con il quale manipolo la realtà, ma piuttosto o lo strumento di una mia affermazione (potere e successo) o il mezzo con il quale mi procuro le risorse per vivere e fare altro (il tempo libero).
Sulla questione di un rapporto più stretto tra educazione e lavoro – di cui già Giovanni Paolo II nella Laborem exercens sostenne la necessità – mi soccorre ancora Giussani, che al proposito disse: “Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno del desiderio, da questo dinamismo costitutivo dell’uomo.
Il desiderio accende Il motore dell’uomo: allora si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, la donna, una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa su come mai taluni hanno e altri non hanno, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente cuore e che io chiamo anche ragione. E non c’è ragione senza in qualche modo un destato affetto”. Perché il lavoro non sia alienante occorre, oltre che la dignità delle sue condizioni, la coscienza del suo senso e della sua utilità. Un ragazzo down, socio-lavoratore di una cooperativa sociale una volta disse: “Io tutti i giorni avvito questa piastra elettrica a questo frigorifero. Ma questa piastra l’ha fatta un uomo e questo frigorifero lo userà un altro uomo. Quindi io sono utile”.
Insomma – mi permetto di insistere – distrutto il desiderio, eliminata la tristezza, viene meno la capacità di lavorare: assistimi, mantienimi, dammi il reddito di cittadinanza.
Vita, famiglia e denatalità
Veniamo alle questioni cosiddette eticamente sensibili. Su questi temi c’è una vulgata della mentalità dominante di fronte alla quale – dice Ratzinger – non basta essere reattivi: “Al matrimonio omosessuale non si può rispondere con piccoli moralismi. È una questione che pone la domanda di fondo: chi è l’uomo? C’è un creatore o l’uomo è un autoprodotto? Rinunciare all’idea di creazione vuol dire rinunciare alla dignità dell’uomo, alla sua indisponibilità”. L’incomprensione di cosa sia veramente l’uomo è per Ratzinger un dramma morale, ed è una questione di sguardo. “Il dramma morale comincia dallo sguardo, dalla scelta di guardare il volto dell’altro” o meno, dalla sensibilità per l’altro e dalla ricerca di un linguaggio a lui comprensibile: “Solo se capiamo la sensibilità fondamentale dell’esistenza moderna che non dà adito alla fede possiamo evitare di essere reattivi”. La “nuova evangelizzazione”, che molti paventano e altri auspicano come restaurazione cristiana, “non può escludere l’evo moderno, sarebbe una concezione astratta della storia”.
“Il volto dell’altro è un appello alla mia libertà perché io me ne prenda cura, perché ne affermi il valore in sé. L’evidenza del valore morale dipende dalla segreta decisione della libertà di vedere, di essere provocata, di cambiare”.
E qui Ratzinger dimostra tutta la sua apertura mentale, quella che gli fa apprezzare anche l’illuminismo di cui pure denuncia tutte le gravi conseguenze: “Alla domanda ‘Chi è l’uomo?’ non abbiamo una risposta univoca, lo capiamo quando ci troviamo davanti a un uomo che soffre (Ecce homo). […] Il dramma del nostro tempo consiste proprio nell’incapacità di guardarci così”.
Sulla denatalità, quindi, Ratzinger dice che è illusorio pensare di porvi rimedio solo con ricette economiche: “C’è un’ostilità nei confronti del futuro (un venir meno della speranza) e la denatalità ne è il segno”. Il crollo demografico è la conseguenza della mancanza di una posizione umana, della mancanza di fiducia nell’altro e di speranza in quello che costruisci. Tutti gli appelli alla morale non fanno una ragione per cui una coppia metta al mondo un figlio, senza fare il calcolo dei profitti e delle perdite. Si fa un figlio perché si scommette su una positività, perché la vita che si vive abilita a pensare che può essere proiettato nel mondo anche se non ci sono certezze preventive.
Al proposito io vorrei raccontare un’esperienza personale. Quando vado a Milano a trovare le mie figlie che abitano al Corvetto, non proprio un quartiere ricco, spesso le incontro con i loro figli al parchetto della parrocchia della Medaglia Miracolosa, ed è un pullulare di bambini con le mamme e ognuna ne conta almeno due, molte tre e qualcuno va oltre. Allora ho pensato che c’è un fattore altro oltre a quello economico (agli asili, agli assegni familiari, ai bonus bebè) ed è la letizia di queste famiglie, pur se immerse nei problemi di tutti e alle prese con le difficoltà di tutti. Poi ho letto in questo libro: “Il cristiano può essere legittimamente lieto della sua fede. Questa letizia è anche la sua responsabilità. Ci sono forme di fede triste e spenta che danno ragione a chi la avversa. “In questa situazione la Chiesa dovrebbe essere in primo luogo e una buona volta finalmente sé stessa e non solo strumento moralizzatore della società come vuole lo stato liberale, né pensare che il suo specifico sia l’azione sociale. Non con strumenti di potere o l’efficacia delle sue strutture istituzionali, ma attraverso la testimonianza, il suo stesso vivere e soffrire”.
Servono cristiani con una fede illuminata e vissuta che rendano Dio credibile in questo mondo, imparando dalla fede la vera umanità. Il modello? La lettera a Diogneto. Non è questione di concentrarsi su certi temi o valori, ma – come direbbe Cormac McCarthy, di vivere la frontiera, la vita di tutti (potere, lavoro, famiglia) in un modo diverso e più umano. Un giorno la dirigenza del Meeting di Rimini fu ricevuta in udienza privata da Giovanni Paolo II, c’era anche una scrittrice polacca molto sua amica che insisteva sul fatto che il Meeting dovesse occuparsi di temi come l’aborto e simili. il Papa la interruppe e disse. “Non datele retta, voi dovete fare una cultura di frontiera”.
Quello che serve, e che purtroppo spesso manca, non è una strategia culturale o politica, ma la testimonianza, che è in sé già una nuova cultura. La politica, come l’intendenza (Napoleone dixit) seguirà.
Ubaldo Casotto è stato il primo giornalista assunto al Foglio (dicembre 1995), giornale di cui è stato vicedirettore esecutivo sino al 2008. Ora è direttore scientifico della Fondazione costruiamo il futuro.
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