quarantaduesima edizione
Dio e Freud, mistero e dolore al meeting di Rimini
“Il male è il motore del progresso”, dice Éric-Emmanuel Schmitt. La lotta dell’uomo contro l’idea tossica di felicità
Rimini, dal nostro inviato. “Il male è il motore del progresso”, dice subito il drammaturgo, scrittore, saggista, traduttore, regista e sceneggiatore francese Éric-Emmanuel Schmitt, lasciando da parte i discorsi ad alto contenuto di melassa sull’uomo votato alla ricerca del bene, sempre e comunque. A Rimini, moderati da Alessandro Banfi, Schmitt e Daniele Mencarelli (dal suo Tutto chiede salvezza è stata tratta una serie tv, presto su Netflix) hanno discusso della questione fondamentale e cioè l’irriducibilità dell’uomo anche – e soprattutto – quando si trova immerso in situazioni disperate. Le vive e ne fa esperienza. E’ vero, la letteratura ci racconta l’invincibile domanda di bene, ma “nulla è nuovo, l’uomo non è più morale di Platone, Aristotele, Kant. L’uomo nostro contemporaneo – sentenzia il drammaturgo francese – non progredisce”. Dopotutto, aggiunge, “occorrono conflitti mondiali per creare le società delle nazioni, servono le pandemie per dare vita all’Oms. Gli uomini non vogliono il bene, vogliono semplicemente evitare il meno peggio”. Pessimismo cosmico? Tutt’altro: Schmitt si definisce “ottimista tragico”, perché “si progredisce sì, ma a far progredire è il male”.
Non c’è sempre un lieto fine, le cose non terminano sempre bene come magari vorremmo. Si prenda il suo Oscar e la dama in rosa, libro che si legge d’un fiato, con le sue 120 pagine. E’ la storia di un bambino malato che non guarisce. Sa di non potercela fare, tutti ne sono consapevoli. Ma lui è lì, è una persona e di lui si occupano tutti. Ecco, in quest’epoca dove il progresso è vissuto come una conquista definitiva, non bisognerebbe dimenticarsi che “il progresso della medicina non deve diventare la disumanizzazione della cura”. Il male, insomma. Che scuote o, per dirla con Mencarelli, “sveglia”. “Ci servono le sveglie, altrimenti ci troviamo chiusi in appartamenti lussuosi convinti che ci basti quella consuetudine. Ecco la mediocrità. L’uomo è fatto per abbracciare la sua fragilità e trovare in quei momenti barlumi d’allegria. Abbiamo un’idea tossica della felicità, come se questa fosse una terra da raggiungere per poi restarci sempre”. Sono altri gli interrogativi che bisogna farsi, soprattutto in tempi come questi segnati dalla superficialità e dalla semplificazione: “La vera domanda che ci dobbiamo porre è: come amiamo?”, dice Mencarelli. Bisogna, chiarisce, “stanare l’uomo rispetto al suo agnosticismo naturale mettendo in scena il niente, costruire cioè la vertigine senza senso. L’abisso va visto e toccato”. Solo così si riesce a dare un valore alle cose, alle parole, al senso dell’amore e della felicità. Che non sono frasi buone per motti adolescenziali o spot televisivi. No, sono qualcosa di serio e profondo. Di misterioso.
E il mistero piace a Schmitt, che non teme di dire che “siamo tutti fratelli agnostici, perché si può pensare che Dio esista ma nessuno può dimostrarlo empiricamente. Di Dio si può fare esperienza: il credente dirà di non sapere se c’è ma pensa di sì, il non credente dirà di non sapere se c’è ma pensa di no. E’ in quello spazio grigio che sta a metà che gli uomini si trovano vicini. “Questo è l’umanesimo, la condivisione della stessa domanda”. Schmitt ha cercato di far comunicare questi due mondi, mettendo Dio sul lettino di Freud. “Non hanno niente in comune e quindi hanno tante cose da dirsi. La loro conversazione ruota attorno alla domanda su come si possa credere a un mondo contrassegnato da così tanto dolore. Freud processa Dio, ma Dio risponde e ogni uomo potrebbe riconoscersi in ciascuna delle due parti. Noi uomini – osserva il drammaturgo francese – dobbiamo unirci attorno alle grandi domande; siamo tutti assaliti dalle stesse domande anche se diamo a esse risposte diverse”.
L’uomo è al centro di questa quarantaduesima edizione del Meeting, non per altro il titolo della rassegna è “Una passione per l’uomo”, citazione tratta da un intervento di don Luigi Giussani al Meeting del 1985. Lo si vede negli incontri, negli stand, nelle mostre. C’è quella su don Emilio de Roja, sacerdote friulano morto nel 1992 che Giovanni Paolo II, visitando Udine solo tre mesi dopo la sua scomparsa, avrebbe definito “apostolo della Carità”. Scelse di stare a Udine in un quartiere difficile, tra quelli che si definiscono ragazzi difficili. Eppure, come dice uno di quelli che più l’ha conosciuto, “era un uomo felice, parlava sempre e in ogni occasione con felicità, come se il mondo intero gli regalasse felicità e non brandelli umani, come se le miserie fossero occasione per essere felice”. Ecco, forse, quel che Daniele Mencarelli intendeva per vera felicità, sperimentabile solo quando si scende nelle profondità dell’abisso umano.
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