L'eredità di Papa Francesco
Bergoglio ha modellato a sua immagine il Collegio dei cardinali chiamato a eleggere il suo successore. I giochi però sono tutt'altro che fatti. Lo dicono la storia e la logica
Con l’apertura alle periferie, fare previsioni risulta inutile e rischioso. Incasellare i porporati presi alla fine del mondo tra le schiere progressiste o conservatrici ha, mai come ora, poco senso
Anticamente si consultavano gli oroscopi, si guardavano le fasi lunari, si toglieva perfino di mezzo con veleno o coltello qualche porporato della casata nemica, a mo’ di precauzione. Oggi, più saggiamente, si studiano i profili dei nuovi cardinali, si va a scartabellare negli archivi, a trovare la dichiarazione giusta, a compulsare le omelie, a riportare alla memoria qualche intervista (o qualche stralcio d’intervista) dell’eminentissimo in questione. Si tratta insomma di applicare l’etichetta “giusta”, conservatore o progressista, riformatore moderato o riformatore spinto. E’ un gioco mediatico di certo non nuovo, che però vale quel che vale. E cioè poco.
E’ naturale che giunti a un determinato punto del pontificato – di qualunque pontificato – s’inizi a discettare di tramonto e declino del regno. Fino a qualche decennio fa, uno dei momenti più suggestivi dell’incoronazione papale si realizzava quando veniva bruciato un batuffolo di stoppa tenuto in mano dal Pontefice neoeletto. Mentre la fiamma s’esauriva velocemente, s’udiva intonato con voce alta per tre volte “Pater Sancte, sic transit gloria mundi”. Discorsi del genere, insomma, si sono sempre fatti e si fanno anche per il pontificato di Francesco, acciaccato e prossimo agli 86 anni. Lui, il Papa, un anno fa pareva irritato quando denunciò certi discorsi che sentiva sulla sua successione, paragonandoli a losche trame di quelli che lo “vogliono morto”. Eppure, è sufficiente una rapida ricerca su Google per scoprire che a metà degli anni Novanta le librerie erano colme di saggi più o meno di qualità sui profili di chi avrebbe potuto prendere il posto di Giovanni Paolo II. E nessuno s’indignò, anche perché la Provvidenza aveva programmato di togliere da questo mondo quasi tutti quelli che figuravano in prima linea per la successione, i “favoriti”. Nei conciliaboli cardinalizi odierni si guardano gli elenchi dei nuovi cardinali e si fa di conto, questo è con noi, quest’altro no, questo chissà.
Francesco, nel corso del suo pontificato, ha impresso una chiara linea al Collegio: niente più sedi “tradizionalmente cardinalizie” concesse “per inerzia”, come ha detto l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini. Il cardinalato è un riconoscimento personale e niente prescrive che il titolare di una determinata diocesi, foss’anche la più grande del pianeta, debba di diritto avere la porpora. E’ così che Milano, pure con rito proprio, quello ambrosiano, è rimasta fuori. L’ormai celebre discorso di mons. Delpini in occasione del pontificale di sant’Abbondio a Como, al termine del quale in modo sarcastico si chiedeva perché mai fosse stato fatto cardinale il vescovo della città lariana e non il metropolita milanese, è da leggersi in tal senso: Delpini non parlava per sé, quanto sottolineava – e chissà quanto ironicamente – che l’aver escluso Milano dal Collegio non è affare derubricabile a casualità. In passato è già successo: Pio X non diede mai la berretta all’arcivescovo di Firenze, sospettato di modernismo, Pio XII lasciò fuori dal Sacro collegio Giovanni Battista Montini, che proprio a Milano era stato mandato in qualità d’arcivescovo. Esponenti di punta vicini al pensiero di Francesco più volte hanno ribadito che non si può più tornare indietro, che il percorso avviato dal Papa argentino è irreversibile. Serviva dunque scardinare un sistema, il carrierismo così tanto deprecato, e sorprendere. Niente Los Angeles né Milano, diocesi grandi e cardinalizie, spazio a Tonga e mille altre terre di frontiera, dove il cattolicesimo è minoritario se non ridotto a sparute comunità che neppure sanno cosa sia un cardinale, come raccontato da mons. Giorgio Marengo, il più giovane del collegio, missionario in Mongolia. E’ vero che Francesco, nei suoi concistori, ha per lo più escluso voci dissonanti rispetto al programma da lui impostato, scegliendo personalità affini alla sua visione di Chiesa. Lo si vede in modo chiaro in particolari contesti, come quello statunitense, dove il cardinalato è stato concesso solo a quanti non appartengono al gruppo episcopale maggioritario che si rifà al “conservatorismo muscolare” assai forte all’epoca delle guerre culturali dell’epoca giovanpaolina e ratzingeriana. E’ sufficiente citare quattro delle ultime scelte, dall’arcivescovo di Chicago Blase Cupich a quello di Newark Joseph Tobin, fino a Wilton Gregory a Washington e Walter McElroy, titolare della diocesi di San Diego e considerato uno dei vescovi più liberal d’America.
Pensare però che i giochi siano fatti e che il prossimo Conclave, quando sarà, si limiterà a constatare una maggioranza “francescana” di fatto e dunque a eleggere un cardinale che continui sulla via tracciata è impresa ardita. Certo, riprendendo in mano tabelle e schieramenti, la tentazione di dare tutto per scontato c’è. Ma la storia della Chiesa insegna che i piani sono fatti per essere, quasi sempre, smentiti. Il Conclave “preparato” da Pio XII elesse Giovanni XXIII, quello figlio delle scelte di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha portato al Soglio Francesco. Non v’è dubbio che Jorge Mario Bergoglio abbia, nella sua intenzione di spezzare tradizioni consolidate e automatismi di carriera, forzato l’equilibrio del Collegio: Ratzinger ha imposto la berretta a diversi vescovi che con la sua visione teologica e pastorale avevano ben poco a che vedere, e lo stesso vale per Wojtyla. Francesco, no. La “rivoluzione” cardinalizia cela però diverse incognite, come sottolineava il vaticanista americano John Allen: incasellare i porporati presi alla fine del mondo tra le schiere progressiste o conservatrici ha, mai come ora, poco senso. E’ infatti probabile, sottolineava Allen, che questi cardinali abbiano ad esempio idee molto avanzate rispetto alla giustizia sociale e ai cambiamenti climatici ma che invece siano molto conservatori sulle questioni dottrinali. Notava Robert Royal, di The Catholic Thing, che se certe aperture sulle coppie omosessuali sono state bloccate nel corso dei Sinodi tenuti a Roma negli anni di Francesco, lo si deve ai vescovi africani. Determinati, combattivi, intransigenti e poco propensi alla mediazione. Lo si era già visto sulla riammissione dei divorziati alla comunione, all’inizio del pontificato bergogliano, quando furono proprio i presuli africani a dare battaglia, come confermò anche il cardinale Walter Kasper, che nel 2014 a Sinodo aperto contestò loro di essere prigionieri di certi tabù un po’ retrò. Frase che mandò su tutte le furie l’allora arcivescovo di Durban, il cardinale Wilfrid Fox Napier, francescano mai annoverato tra i conservatori: “E’ davvero preoccupante vedere l’espressione ‘teologo del Papa’ applicata a Walter Kasper”.
Insomma, questi cardinali delle periferie che mai o quasi mai hanno visto Roma e ancor meno hanno calpestato i corridoi della curia romana, cosa voteranno? Diventa allora fondamentale individuare quali sono le questioni preminenti che attraversano la Chiesa da un capo all’altro del mondo, depurando il discorso della consueta retorica bolsa che trasforma ogni appuntamento alla presenza del Papa in un’occasione di fraterno dialogo e di fulgido esempio di sinodalità. Ci sono stati sinodi in cui i padri se le sono (metaforicamente) date di santa ragione, è cronaca ben nota e non si vede perché quando arriverà il momento non si possa ripetere quanto s’è già visto. Quali sono le questioni dirimenti, oggi? Dipende dalla prospettiva da cui si guarda. Un esempio: se nelle congregazioni generali saltasse fuori il tema della difesa della vita, qualche cardinale statunitense porrebbe senz’altro il problema dell’aborto. Venendo subito applaudito e seguito da folte schiere dei confratelli africani. Se invece un cardinale sudamericano tenesse un discorso sull’emergenza climatica, sulla mancanza d’acqua e sulla sofferenza delle foreste e delle popolazioni che vi abitano, quegli stessi porporati africani non potrebbero che riservare una standing ovation a quel cardinale. E’ dunque impossibile stilare previsioni sulla base delle biografie cardinalizie o di qualche intervento pronunciato chissà quando e chissà dove. Di certo, dirimente sarà – e lo è già – intendersi sul concetto di sinodalità. Parola nobilissima e ricca di tradizione, che però sembra essere diventata il comodo tappeto che copre ogni cosa: tutto è sinodale, tutto è sinodalità. Non a caso, qualche cardinale orientale che il Sinodo lo conosce meglio di tanti occidentali, ha fatto presente nel corso delle riunioni a margine del concistoro di fine agosto che il Sinodo non è un semplice incontro fra amici, ma è una cosa seria. Solenne e non estemporanea. Da non confondersi con la comunionalità e la collegialità.
Qualcuno, dietro lo schermo della sinodalità, vorrebbe rivedere il primato petrino? In Germania lo pensano i laici e pure una buona parte dei vescovi, stando ai documenti che il Cammino sinodale tedesco sta producendo in questi anni prima di portarli in Vaticano per spezzare quel legame in modo che – come ebbe a dire il cardinale Reinhard Marx – “non sarà Roma a dirci quel che dobbiamo fare qui”. Papa Francesco, su questo, non è molto d’accordo: in occasione della commemorazione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, nell’ottobre del 2015, il Pontefice disse che “il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub Petro – dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro – non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità. Infatti il Papa è, per volontà del Signore, ‘il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità tanto dei vescovi quanto della moltitudine dei fedeli’. A ciò si collega il concetto di hierarchica communio, adoperato dal Concilio Vaticano II: i vescovi sono congiunti con il vescovo di Roma dal vincolo della comunione episcopale (cum Petro) e sono al tempo stesso gerarchicamente sottoposti a lui quale Capo del Collegio (sub Petro)”.
Il processo avviato da Francesco e che convoglierà all’ombra di San Pietro, il prossimo anno, le istanze di tutto il mondo, non è destinato a esaurirsi nelle discussioni romane. Sì, ci saranno i gruppi di lavoro divisi per lingua parlata, gli interventi in aula, i voti e il documento finale con l’esortazione apostolica. Ma le richieste che giungono non solo dall’Europa occidentale e secolarizzata – ma neanche la secolarizzazione può essere più la scusa per giustificare totalmente la disaffezione di un popolo verso la fede, come ha detto all’Osservatore Romano il cardinale Matteo Zuppi – mettono in discussione gli approcci pastorali e la natura dell’Istituzione stessa. Votare in un consesso nazionale la fine del celibato sacerdotale obbligatorio, approvare l’ordinazione delle donne, “legiferare” su questioni di morale, come si ripromettono di fare in Germania (ma non solo lì), significa assestare più di un colpo al primato del Papa. E’ probabile che convogliando tutti gli auspici “dal basso”, dando una risposta anche alle domande destinate a finire nel nutrito faldone dei sogni destinati a restare tali, molto risulterà annacquato, deludendo aspettative e speranze di chi al percorso sinodale (non molti, in verità) ha partecipato. Ma quei temi resteranno e si riproporranno, con i promotori a ribadire la necessità di una svolta e di un aggiornamento e i resistenti a opporvisi temendo che così a regnare sarebbe incontrastata la confusione. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Georg Bätzing, che ha rispedito al mittente la Nota con cui a luglio la Segreteria di stato vaticana avvertiva ancora una volta che nessuna “rivoluzione” poteva essere decisa da un Sinodo convocato e tenuto sotto gli auspici di un episcopato locale, si è già detto pubblicamente “deluso” da “un Papa poco coraggioso sul terreno delle riforme”. Proprio lui, il Pontefice che ha inaugurato un Sinodo pluriennale sul concetto stesso di sinodalità. Tensioni, queste, che giocoforza riemergeranno quando si tratterà di decidere chi succederà a Francesco.