una cerimonia di virtuosismi vocali
Quel Rossini sacro, ma non troppo di Pappano. Stupendo
La Messa in Gloria incisa dal vivo per un nuovo album: questo resta il maggior lavoro legato alla sacralità del compositore ed è limitata alle prime due sezioni dell'Ordinarium Missae, il "Kyirie" e il "Gloria"
Mentre all’Auditorium imperversa Elektra, sullo stereo casalingo i ceciliani si divertono con la Messa di Gloria di Rossini, incisa dal vivo per la Warner con sir Tony Pappano non ancora in epoca d.C. (dopo Covid), quindi con coro e orchestra distanziati, come se non fosse già abbastanza difficile. Questa Messa rimane un oggetto abbastanza misterioso del catalogo rossiniano, benché sia poi, alla fine, il maggior lavoro sacro del Gioacigno nella prima parte della vita, quella da operista in servizio attivo. Una delle poche certezze è che fu eseguita il 24 marzo 1820 nella chiesa di san Ferdinando a Napoli “per la festa de’ Dolori di Nostra Signora”, come scrive annunciandola il Giornale delle Due Sicilie.
Arriva quindi fra Bianca e Falliero per la Scala e Maometto II per il San Carlo, e come al solito Stendhal bara. Assicura di averla ascoltata a Napoli, però sbaglia l’anno indicando il ‘19. Ma si inventa pure il suo bravo aneddoto. Stavolta è un prete che dice al maestro: “Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso con questa messa, nonostante tutti i tuoi peccati san Pietro non potrà impedirti di entrare” (va bene che l’episodio è del tutto inventato, ma immaginiamo i gesti apotropaici del Nostro, che oltretutto si accingeva a scrivere il Maometto su libretto di Cesare della Valle, duca di Ventignano, considerato il più micidiale jettatore di tutta Napoli).
Messa di Gloria, quindi limitata alle sole due prime sezioni dell’Ordinarium Missae, “Kyrie” e “Gloria”. Secondo la fantacronaca di Stendhal, Rossini “impiegò tre giorni per dare un’apparenza di canto da chiesa ai suoi motivi più belli”. Se non è vero, è ben trovato: la Messa ha in effetti un sapore alquanto profano, anche se non è l’autorevolissima opinione di Giovanni Carli Ballola, secondo il quale “ogni riferimento strutturale al melodramma rossiniano risulta del tutto fittizio”. Mettiamola così, allora: questa è musica sacra “vera”, ma dov’è del tutto assente il timor di Dio. È la Messa di un uomo felice, “che fa nascere il sorriso sul volto dell’ascoltatore”, come dice Pappano nell’intervista sul booklet del cd. Tanto più che alla tradizionale fuga conclusiva provvide non Rossini, che forse non si sentiva abbastanza dotto o non aveva tempo o se ne fregò, ma il coltissimo contrappuntista Pietro Raimondi, una specie di recordman della dottrina, in grado di produrre in altra occasione, informa sempre Carli Ballola, “una fuga a 64 voci distribuite in sedici cori di quattro voci ciascuno”, e a questo punto vorremmo pure sentirla.
Intanto, in questa Messa di Gloria si sprecano i virtuosismi vocali, e vabbè, dove mai in Rossini non ci sono, ma anche strumentali: ricorda Pappano che, quando nel 1892 fu eseguita a Londra, i due soli del corno inglese e del clarinetto, qui magnificamente suonati da Maria Irsara e Alessandro Carbonare, furono omessi perché troppo difficili. I cinque cantanti rivaleggiano in bravura. Eleonora Buratto si conferma il soprano più prezioso e completo prodotto dalla scuola italiana negli ultimi anni, immacolata e virtuosa nello splendido “Laudamus te”, mentre i tenori Lawrence Brownlee e Michael Spyres replicano le loro ormai consuete sfide a colpi di sopracuti e agilità (bellissimi i sei do acuti del primo nel “Gratias” e i trilli del secondo nel “Qui tollis”), riproducendo la consueta dicotomia del Rossini napoletano fra tenore contraltino e baritenore, che a San Ferdinando furono Giovanni Battista Rubini e Giuseppe Ciccimarra.
Ottimi anche il mezzo Teresa Iervolino e il basso Carlo Lepore che tuttavia, abituati come siamo a vederlo buffeggiare, sembra l’inimitabile Don Pomponio della Gazzetta anche nel “Quoniam”. Coro e orchestra splendidi, come pure la direzione di un Pappano divertito quindi divertente. E allora questa musica che non vuole convertire ma sedurre, che usa il Bello come mezzo per avvicinarci al Buono, che racconta di una fede così ingenua, gioiosa, appunto felice, sì, è davvero musica sacra. A maggior gloria di Dio, ma anche delle nostre orecchie estasiate.
Editoriali
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