(foto LaPresse)  

francesco e xi

Dall'America piovono bombe sull'Accordo fra il Vaticano e la Cina

"Papa Francesco ha dato libero sfogo al Partito comunista cinese rispetto al suo comportamento disumano"

Matteo Matzuzzi

“Papa Francesco, che è così critico nei confronti degli Stati Uniti e del capitalismo, tace sulla Cina. Questo è un ritorno alla fallita Ostpolitik vaticana degli anni Sessanta e Settanta", scrive il Wall Street Journal

Sabato scorso la Santa Sede ha ufficializzato quanto era già scontato e cioè il rinnovo per un altro biennio dell’Accordo provvisorio con la Cina in relazione alla nomina dei vescovi. L’Accordo, firmato una prima volta il 22 settembre del 2018, era stato rinnovato il 22 ottobre del 2020. “La Parte vaticana – si legge nella Nota diffusa alla stampa – è intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte cinese, per una proficua attuazione del suddetto Accordo e per un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali, in vista di favorire la missione della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese”. Il segretario di stato Pietro Parolin, intervistato dai media vaticani, dice che “il cuore dell’Accordo ha certamente a che fare anche con il consolidamento di un buon dialogo istituzionale e culturale”. Ed è proprio quell’accenno ai rapporti istituzionali che ha portato i media d’oltreoceano (soprattutto) a deplorare il rinnovo di un patto che fin dal principio ha visto nell’establishment di Washington (repubblicano e democratico, senza distinzione alcuna) il più veemente oppositore. 

 

Il Wall Street Journal, in un editoriale firmato dalla direzione, mette in parallelo l’annuncio della stretta di mano fra Roma e Pechino con l’incoronazione di Xi Jinping a “dittatore incontrastato della Cina”. Un accordo rinnovato che però ha visto “pochi progressi sulla libertà religiosa”: anzi, “il suo principale contributo è stato quello di attutire la critica vaticana alle violazioni dei diritti umani, dal genocidio dei musulmani uiguri alla persecuzione politica del cardinale Joseph Zen a Hong Kong”. Temi, questi, che il cardinale Parolin non ha toccato, se non quando ha ricordato  “le tante situazioni di travaglio e, a volte, di lacerazione in cui si sono trovate le comunità cattoliche negli ultimi decenni”. Il riferimento è alla divisione fra la cosiddetta Chiesa “patriottica”, che risponde al Partito comunista e quella “sotterranea” fedele al Papa, benché la Santa Sede abbia ribadito che non esistono divisioni e che la Chiesa è una soltanto. 

 

I dati di fatto: in quattro anni, le nomine episcopali sono state solo sei e trentasei diocesi cinesi restano scoperte. Poche? Sì, e il segretario di stato lo ammette: “Ci sono anche diocesi nelle quali il cammino verso la riconciliazione, tanto auspicato da Papa Francesco, segna il passo. Infine, ci sono diocesi nelle quali, malgrado gli sforzi e la buona volontà, non si riesce ad avere un proficuo dialogo con le autorità locali. Noi speriamo vivamente che nel prossimo biennio si possa continuare a individuare, secondo la procedura stabilita, buoni candidati all’episcopato per la Chiesa che è in Cina”. Parolin non nasconde le difficoltà, dopotutto era stato lui mesi fa a rispondere con un chiaro “speriamo” quando gli fu chiesto se l’Accordo avrebbe potuto subire qualche modifica o aggiustamento. Fra gli aspetti positivi, vi è il fatto che “dal settembre 2018 tutti i vescovi della Chiesa cattolica in Cina sono in piena comunione con il Successore di Pietro e non ci sono più state ordinazioni episcopali illegittime”. Il Wall Street Journal sottolinea invece che “la Cina insiste sul fatto che sacerdoti e vescovi servono gli interessi del Partito comunista ateo”.

 

Eppure, scrive il Wsj, “Papa Francesco, che è così critico nei confronti degli Stati Uniti e del capitalismo, tace sulla Cina. Questo è un ritorno alla fallita Ostpolitik vaticana degli anni Sessanta e Settanta, quando Roma smorzava le critiche all’Unione sovietica e ai suoi satelliti in Europa orientale”. Dall’America si riprende una recente intervista di Parolin in cui il segretario di stato sosteneva che è imperativo assumere “la buona fede” di Pechino. Il Wall Street Journal non ci sta perché – scrive – “l’uso della parola ‘fede’ in quella frase è spaventoso: i comunisti cinesi ripudiano ogni fede religiosa”. Emerge, ancora una volta, l’incomprensione statunitense per il pontificato di Francesco: “Nella storia del papato – prosegue l’editoriale – forse niente è stato così emozionante, anche per i non cattolici, dell’elezione nel 1978 di un Papa polacco, oltre la cortina di ferro. ‘Non abbiate paura’, diceva Papa Giovanni Paolo II ai credenti, e ha dato l’esempio sfidando regimi come l’Unione sovietica e usando il suo pontificato per portare all’attenzione del mondo la difficile situazione dei dimenticati e dei perseguitati. Il motto attuale del Vaticano è: ‘Abbiate paura’.

 

Papa Francesco ha dato libero sfogo al Partito comunista cinese rispetto al suo comportamento disumano, e così facendo ha compromesso l’autorità morale della   Chiesa cattolica”. Frasi non nuove: le mise per iscritto, in un articolo pubblicato su First Things, l’allora segretario di stato Mike Pompeo, quando tentò vanamente di bloccare la firma dell’Accordo provvisorio.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.