La Chiesa americana elegge i nuovi vertici. E i candidati sono quasi tutti conservatori
Elezione aperta, dieci candidati per il posto ora occupato da mons. Gomez. Nonostante il ricambio voluto dal Papa, i favoriti sono i culture warriors
Favorito secondo i pronostici è l'attuale segretario, mons. Timothy Broglio, già segretario del cardinale Sodano. Un solo vero liberal, mons. Paul Etienne
Roma. Non è solo tempo di elezioni di metà mandato, negli Stati Uniti. A metà novembre, infatti, andranno alle urne anche i vescovi americani, chiamati a rinnovare i vertici della Conferenza episcopale. Un appuntamento di rilievo perché coincide con l’avvio della delicata fase che porterà alle elezioni presidenziali del 2024. Non ci sono pronostici scontati: l’attuale vicepresidente, mons. Allen Vigneron, non può essere eletto per limiti d’età e quindi la partita è apertissima. Solitamente, infatti, con la clamorosa eccezione del 2010 – quando la spuntò Timothy Dolan su Gerald Kicanas, vicepresidente uscente e punta di diamante dell’ala liberal – a essere eletto è il numero due, in una sorta di continuità che mira a non rendere manifeste le divisioni interne al corpo episcopale. Stavolta i giochi non sono fatti, anche se qualcosa si può comprendere dalla short list dei candidati preselezionati dai confratelli vescovi: dei dieci aspiranti, la netta maggioranza risponde alla linea conservatrice fin qui portata avanti, con poche eccezioni.
Il dato è significativo: negli ultimi anni, infatti, il Papa aveva proceduto a un ricambio energico dei vescovi, riorientando più al centro uno schieramento che nell’ultimo quindicennio si era spostato a destra, tra battaglie per i princìpi non negoziabili e prove di forza verbali contro le amministrazioni democratiche che si erano succedute alla Casa Bianca. Che il progetto di Francesco fosse chiaro l’hanno dimostrato anche le scelte cardinalizie: Blase Cupich, Joseph Tobin, Wilton Gregory, Robert McElroy. Tutti delfini del cardinale Joseph Bernardin, il protagonista della stagione progressista della Chiesa americana, scomparso nel 1996. Eppure, nessuno di questi quattro è nella lista dei preselezionati dal plenum dei vescovi. C’è invece, solo per fare un nome, Salvatore Cordileone, il vescovo di San Francisco che fa delle battaglie valoriali un punto fermo della sua agenda pastorale, tanto da aver più volte reso insofferente il Vaticano per certe prese di posizione pubbliche considerate troppo muscolari e poco dialoganti.
Il favorito, per quel che valgono i pronostici in un’elezione che comunque è a scrutinio segreto, è l’ordinario militare Timothy Broglio, attuale segretario generale della Conferenza episcopale. Se la linea è la stessa del presidente uscente José Horacio Gómez, Broglio è considerato “più energico” e con più polso. In caso di una sua elezione, dunque, è verosimile che il confronto sui temi bioetici non assumerà toni più bassi, tutt’altro. Broglio conosce bene la macchina vaticana per aver fatto parte del servizio diplomatico ed essere stato segretario particolare del cardinale Angelo Sodano. Fatto, questo, che potrebbe fargli perdere qualche voto nel segreto dell’urna, soprattutto da chi considera inopportuno eleggere una persona molto vicina a colui che non ostacolò la nomina di Theodore McCarrick ad arcivescovo di Washington. In ogni caso, non sembrano ostacoli tali da impedirne l’elezione, considerato anche che Broglio è stato dagli stessi vescovi eletto segretario generale della Conferenza episcopale non più tardi di tre anni fa. Ha concrete possibilità anche mons. Kevin Rhoades, di Fort Wayne-South Bend (Indiana). E’ l’autore del delicato documento sull’eucaristia approvato nel 2021 dopo mesi di tensioni interne e appelli pubblici. Il testo è stato considerato troppo debole dall’ala più intransigente, ma la maggioranza dei vescovi ha apprezzato l’equilibrio di Rhoades, capace di tenere unita una compagine episcopale sul punto di dividersi tra quanti volevano mettere per iscritto che i politici pro choice non avrebbero potuto accostarsi alla comunione e quanti, invece, volevano che il tema non fosse nemmeno toccato. Rhoades, in ogni caso, ha fatto sapere da tempo come la pensa sul tema, sostenendo che “a volte può essere necessario vietare l’eucaristia ai politici favorevoli all’aborto”. Sempre lui, nel 2016, criticò la Notre Dame University per aver consegnato un riconoscimento all’allora vicepresidente Joe Biden. Ben posizionato è mons. Paul Coakley, arcivescovo di Oklahoma City, conservatore tendenza Communio che guida la campagna per l’abolizione della pena di morte.
Sul versante liberal, il nome forte è quello del vescovo di Seattle, Paul Etienne. E’ considerato l’enfant prodige del gruppo progressista che si richiama ai cardinali Cupich e Tobin e un anno fa ha contestato pubblicamente il documento sull’eucaristia, dichiarandosi contrario a impedire ai politici favorevoli all’aborto l’accostamento al sacramento. Mons. Etienne non avrà i voti necessari per essere eletto presidente, ma sarà interessante notare quanti voti prenderà, per capire se sia ipotizzabile uno spostamento (più o meno lento) dell’episcopato americano verso istanze antitetiche a quelle dei culture warrior. In mezzo, i “moderati”, buoni candidati di compromesso ma che non sembrano in grado di attrarre il consenso dei confratelli già schierati in un campo o nell’altro della battaglia.
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