Il dilemma del Papa e la condanna della violenza
Si rinnovano gli appelli perché Francesco condanni i disordini in Iran. Dopo le polemiche per i tentennamenti sulla Russia, si torna a discutere dei “silenzi” del vicario di Cristo
Ma il vescovo di Roma non è un influencer. Non è chiamato a dispensare una parola su tutto. Non è Oprah Winfrey che deve far sapere come vota. Il caso cinese
“Oh! Le pene della Santa Sede! Spesso non c’è che il gemito innanzi alle ingiustizie subite. Si potrebbe gridare più forte. Ne verrebbero altri guai”.
(Angelo Roncalli, Giovanni XXIII, “La mia vita in oriente”)
Perché il Papa non condanna la Russia e Vladimir Putin? E perché non dice niente contro il regime iraniano che si comporta con il proprio popolo come fa ogni regime quando si sente minacciato, reprimendo e assassinando? I silenzi del Pontefice, veri o presunti che siano, sono una questione non certo nuova. Basti pensare alla florida letteratura sull’atteggiamento di Pio XII nei confronti del nazismo e della Shoah, i suoi silenzi davanti alla strage e ai camini fumanti dei campi di concentramento. “Cosa si pensa dei miei silenzi sui tedeschi?”, chiese Papa Pacelli all’allora mons. Angelo Roncalli nell’udienza concessagli il 1° ottobre 1941. Domanda che stupì il futuro Giovanni XXIII, tant’è che questi la registrò sul proprio diario. In realtà non si sa, come ha scritto Andrea Riccardi nel suo La guerra del silenzio, appena pubblicato da Laterza, a cosa si riferisse nello specifico Pio XII: agli ebrei perseguitati? O forse ai polacchi, che da tempo lamentavano una politica fin troppo realista della Santa Sede che pareva inerte mentre Hitler occupava Varsavia e ne sventrava strade e piazze? Non lo sapremo mai, Roncalli non lo dice. Quel che rileva è che ben prima dell’opera “Il Vicario” di Rolf Hochhuth, la questione dei silenzi pacelliani circolava in curia e tormentava lo stesso Pontefice, convinto forse che una sua parola in più potesse essere considerata da Berlino una provocazione tale da giustificare una reazione spropositata. I segnali c’erano stati, quando i vescovi olandesi protestarono per l’occupazione tedesca e la punizione ordinata da Hitler non fu indolore. Sono teorie per gli storici intenti a scavare negli Archivi, cercando – chissà con quanto successo – di fare luce su quel particolare e complesso quinquennio del Novecento. Ma il tema del silenzio del Papa, seppure privato della gravitas di quegli anni, si ripropone anche oggi. Non ci sono opere teatrali di mezzo, bensì social network e la stampa. Perché il Papa non dice niente?
Dalla fine dello scorso febbraio, i discorsi di Francesco vengono compulsati, letti e riletti, così come le sue interviste – a braccio o programmate – studiate per capire se c’è una mezza parola di condanna contro la Russia o il suo presidente. Bergoglio non l’ha mai fatto, benché non vi siano dubbi su chi sia l’aggressore del “martoriato popolo ucraino”, anche se qualche tweet di troppo – “i mercenari” additati come unici colpevoli della guerra in Ucraina – non ha reso sempre chiara la linea vaticana. In ogni caso, quando sembrava possibile l’uso dell’arma nucleare, si rivolse in un Angelus al presidente della Federazione russa, chiamato a fermarsi e a scongiurare l’apocalisse. E la richiesta di una parola di condanna è stata rivolta a Santa Marta anche più di recente, seppure con meno enfasi, in relazione a quanto sta capitando a Teheran. L’Iran è in subbuglio, i giovani protestano in piazza, le ragazze si tagliano i capelli e i turbanti volano a mo’ di sfregio verso le autorità religiose che tutto controllano. Perché il Papa non dice nulla?
A tale interrogativo, si potrebbe rispondere con un altro, provocatorio: ma perché il Papa dovrebbe dire qualcosa? Il vescovo di Roma, perché tale è il Papa, non è un influencer. Non è chiamato a dispensare una parola su tutto, a dire come la pensa su ogni accadimento che Dio manda in terra. Non è Whoopi Goldberg o Oprah Winfrey che alla vigilia delle elezioni di midterm debbono per forza far sapere agli americani come intendono votare. Il Papa è sì un capo di stato, ma ancor di più è vicario di Cristo in terra. Poniamo che Francesco scegliesse la denuncia esplicita e pubblica: quali sarebbero le conseguenze? Politico Europe aveva affrontato il tema un paio di mesi dopo l’inizio dell’invasione, sottolineando che “un tenace impegno per la neutralità è pragmatico”, in quanto basato “sulla convinzione che così si tiene aperta la porta al dialogo”. Inoltre, e qui si torna ai dubbi che assillarono la curia pacelliana, “non è chiaro cosa potrebbe realizzare la Santa Sede con un tono più aggressivo, data l’intransigenza di Putin e la mancanza di influenza sulla Chiesa ortodossa russa, che ha sostenuto con entusiasmo la guerra” voluta dal Cremlino.
La storia dimostra che la diplomazia d’Oltretevere ha avuto modo di dare ottima prova di sé solo quando è riuscita a mantenersi in una posizione terza, superiore alle Parti in conflitto: non si tratta di negare la realtà, di prendere cioè le difese dell’uno o dell’altro contendente. Il fatto è che, più semplicemente, solo così si può sperare – nulla è certo – di poter svolgere, se necessario, un ruolo di facilitazione, affinché i nemici prima o poi decidano di sedersi al tavolo del negoziato. E’ sempre andata così. Si pensi all’ultima Guerra del Golfo che portò alla caduta di Saddam Hussein. Giovanni Paolo II era chiaramente contrario all’intervento americano e lo fece intendere con il celebre Angelus del 16 marzo 2003, quando parlando a braccio urlò il suo “mai più la guerra”. Non citò mai, però, gli Stati Uniti. Non ne condannò esplicitamente l’azione di forza, non fece nomi né cognomi. Il succo del discorso era però evidente, tant’è che provocò la reazione veemente di larga parte dei più influenti intellettuali neocon: Richard Neuhaus, fondatore della rivista First Things, disse infatti che “per quanto riguarda la chiarezza morale sulla guerra e la pace, si deve ammettere senza reticenze che questo non è stato il momento migliore di questo pontificato. Ma non dovremmo sorprendercene troppo. Flannery O’Connor ha detto che a volte soffriamo più a causa della Chiesa che per la Chiesa. E in realtà non è tanto sofferenza quanto una questione di delusione, e di imbarazzo”. Giovanni Paolo II, di certo non accusabile di derive peroniste o di simpatie terzomondiste e marxiste, attivò la diplomazia: scelse Roger Etchegaray e Pio Laghi, mandandoli uno a Baghdad da Saddam Hussein e l’altro a Washington da George W. Bush. Di nuovo, il tentativo di facilitare una mediazione che scongiurasse la guerra. L’attenzione della Santa Sede era motivata anche dal fatto che in Iraq era presente – e numerosa – una delle più antiche comunità cristiane, che con la guerra ci avrebbe rimesso.
Il coinvolgimento di fedeli cristiani può essere infatti uno dei fattori che decidono l’intervento, anche solo verbale, del Papa. Benedetto XVI scelse di esprimersi sull’attentato che il 1° gennaio del 2011 colpì una chiesa ad Alessandria d’Egitto. “Davanti a questa strategia di violenze che ha di mira i cristiani, e ha conseguenze su tutta la popolazione, prego per le vittime e i familiari”. Le reazioni non furono tenere, a cominciare da quella del Grande imam di al Azhar, quello stesso Ahmed al Tayyeb oggi considerato una sorta di faro moderato in un mondo turbolento e squassato dalle tensioni. Al Tayyeb parlò di “ingerenza inaccettabile”, aggiungendo strumentalmente di non comprendere “perché il Papa non abbia chiesto la protezione dei musulmani quando erano massacrati in Iraq”. Al Azhar decise di interrompere il dialogo con la Santa Sede.
Sull’Huffington Post, il pianista Ramin Bahrami ha rivolto un appello al Papa perché dica una parola sull’Iran. “Osservo una mancanza di attenzione dal Santo Padre, che non mi spiego. Un silenzio strano in questi lunghi mesi di protesta in Iran”. “Ho provato – prosegue Bahrami – a darmi una risposta a questa indifferenza di Papa Francesco, forse il Santo Padre ha paura di innescare una bomba nei rapporti fra l’islam e il cristianesimo. Ma questi signori che governano in Iran non sono depositari di niente, non sono né musulmani né cristiani, non hanno il minimo credo in nulla, per i loro interessi taglierebbero la testa alle proprie madri”. Ancora, “mi meraviglia che non abbia voluto spendere una parola di solidarietà verso le donne, i giovani, il popolo iraniano. Stanno pagando la libertà con la loro vita, non si può permettere che venga calpestata in modo così vile, incivile, disumano. Questi morti non sono meno sacri dei morti che ci sono in Congo, in Siria, in Somalia, in Ucraina. Non possiamo fare due pesi e due misure”.
Il fatto è che la Santa Sede, e il Papa in prima persona, sono impegnati in un delicato e paziente lavoro di ricucitura fra islam e cristianesimo. Di più: il Papa spinge affinché le due grandi anime islamiche trovino la strada verso la pacificazione. Sciiti e sunniti, insieme. Solo così, pensa Francesco, la “Terza guerra mondiale a pezzi” finirà almeno in una parte del mondo e il vicino e medio oriente potranno trovare un minimo di stabilità. Il piano, e lo s’è visto nel recente viaggio in Bahrein, è questo. Utopia? Possibile. E se il Papa non interverrà per biasimare le violenze del regime di Teheran – che da sempre ha ottime relazioni con la Santa Sede, con tutti i Papi che si sono succeduti – lo farà per realpolitik, consapevole che le sue parole non farebbero altro che alienarsi le aperture sciite, senza ottenere in cambio alcunché. Il cardinale Michael Czerny, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, a proposito delle polemiche per la mancata condanna di Putin diceva pochi mesi fa che “non è necessario fare nomi, farlo renderebbe solo il dialogo più difficile”. La massima si applica bene anche al caso iraniano.
Ma fino a che punto il silenzio ha ragioni fondate per essere mantenuto? Il caso emblematico e più attuale è quello che riguarda l’atteggiamento della Santa Sede nei confronti della Cina. Una situazione diversa da quella iraniana, essendovi nella Repubblica comunista milioni di fedeli al Papa che per decenni sono stati costretti – e in parte lo sono ancora – a vivere quasi nelle catacombe, vedendosi in non pochi casi privati del proprio vescovo (sparito, arrestato, deportato) e minacciati nella libertà di culto. Non è necessario ripetere l’elenco delle chiese private delle croci o direttamente rase al suolo, è pura cronaca documentata e accertata. Quattro anni fa, dopo negoziati durati decenni, Roma e Pechino sottoscrivevano un accordo (provvisorio e segreto) relativo alla nomina dei vescovi. Qualcosa, da allora, si è mosso. Poco per stessa ammissione dei vertici diplomatici vaticani, ma poco è sempre meglio di niente. Ma a che prezzo? Quello del silenzio. Mentre i carrarmati di Xi Jinping si appostavano minacciosi ai confini di Hong Kong e le proteste di piazza venivano represse non certo con i guanti bianchi, Roma taceva. Mentre un cardinale veniva arrestato e finiva sotto processo, Roma si limitava – e non con il Pontefice – a esprimere la speranza che tutto potesse risolversi per il meglio e in tempi rapidi. Quel cardinale è il novantenne Joseph Zen, che denunciava l’appeasement vaticano al regime, costringendo di fatto i fedeli che per anni erano rimasti fedeli al Pontefice a riconoscere in qualche modo l’autorità dell’Associazione patriottica cattolica cinese, emanazione del Politburo. Il prezzo, insomma, è molto alto.
Una volta sola Francesco ha detto qualcosa su quel che accade nel grande paese orientale, ed era l’espressione di vicinanza agli uiguri perseguitati. Fu subito rimproverato pubblicamente dalle autorità locali con l’invito a occuparsi delle cose che conosce senza intromettersi in affari che non lo riguardano. Da allora, più nulla. Realpolitik, si dirà, anche se uno che la Cina la conosce bene come lord Christopher Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong, ha detto alla Bbc che “il Vaticano è colpevole di ciò di cui altri si sono resi colpevoli nel trattare con la Cina, e cioè un certo grado di autoillusione. Immaginano di ottenere cose dalla Cina quando è la Cina stella che sta ottenendo molte cose dal suo interlocutore”.
Si tratta di questioni delicate e il rischio è che, qualunque strada si scelga, si vada incontro a ostacoli e incidenti. Se il fine di Roma consiste nella volontà di aprire un canale diplomatico con Pechino, l’unica cosa da non fare è biasimare la distruzione delle croci dalle chiese perché troppo “visibili” o protestare, pubblicamente e con forza, per la persecuzione dei vescovi dissidenti. Tacere porta implicitamente ad accettare il pugno di ferro di quello che resta, nonostante ogni sofisma diplomatico, un regime dittatoriale che non gradisce critiche od obiezioni. In un quadro complicato dalla pretesa della Santa Sede di non essere considerata capellania dell’occidente a guida americana, si comprende bene quanto la situazione sia difficilmente risolvibile.
Il cristianesimo non è utopia