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Ciò che resta del cristianesimo, messo alla prova dalle illusioni della modernità
La nuova raccolta di saggi di Giancarlo Gaeta, “in attesa del regno”, parte dalla domanda: che cosa resta di una fede millenaria? E la risposta si può condensare nella consapevolezza dell'urgenza di tornare al messaggio evangelico
Credo che in Italia pochissimi intellettuali si siano interrogati sullo statuto delle religioni nel mondo contemporaneo con la radicalità di Giancarlo Gaeta, massimo interprete di Simone Weil e insigne studioso del cristianesimo antico. L’ultimo risultato di questa ricerca si può leggere ora nella sua nuova raccolta di saggi edita da Quodlibet, e intitolata “In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi”. Oltre che da una coerenza capace d’imprimere lo stesso sigillo sui temi più vari, la sua natura di summa si evince dall’“esergo” e dalla “postilla”, che all’inizio e alla fine del libro, in tono insieme desolato e liberatorio, condensano aforisticamente la risposta dell’autore alla domanda di fondo: cosa resta di una fede millenaria? Secondo Gaeta le religioni tradizionali, annacquate o falsificate dal confronto con la modernità, sono oggi dei depositi culturali preziosi a cui attingere, ma non più delle case da abitare.
Per quanto riguarda l’occidente, l’esperienza cristiana delle origini è stata sottoposta a una distorsione fatale già nei primi secoli. La Chiesa ha infatti addomesticato l’iniziale prospettiva escatologica – cioè quella di una vita vissuta sotto il segno della fine, dunque spogliata dei progetti mondani – trasformandola in provvidenzialismo. E più avanti, mentre la società si laicizzava, questo provvidenzialismo si è poi decomposto in un sincretismo variabile, dettato dall’esigenza di conservare il prestigio ecclesiastico in epoche in cui la dottrina faceva sempre meno presa. “Invece di agire nella certezza che, a propriamente parlare, non c’è più storia”, scrive Gaeta, “si è ridata legittimità all’agire umano in vista di una meta, il regno di Dio o quello del progresso, infinitamente spostata in avanti”.
Ma così “l’escatologia del differimento si è infine risolta nell’eterno presente della pura sopravvivenza biologica; l’acquisizione di una conoscenza del significato ultimo della storia si è dissolta nella perdita di ogni significato”. Per Gaeta, occorre quindi tornare al messaggio evangelico; e anziché rimandare al futuro la realizzazione del Regno – elaborando inevitabilmente dei progetti di dominio, e favorendo una gestione politica del “frattempo” – occorre tentare di dargli corpo nel presente alternativo di un’esistenza cristiana. Secondo il detto paolino, bisogna vivere nel mondo come se non si fosse del mondo – ricordare che la scena mondana passa e non volerne possedere le figure, ma al tempo stesso evitare di chiudersi in una freddezza stoica che rischia di rovesciarsi a ogni momento nel peggiore machiavellismo da mani libere.
“Il cristiano”, afferma l’autore nella pagina forse più intensa della raccolta, “sta sul palcoscenico del mondo pur sapendo che ciò che vi è rappresentato sparisce continuamente nel nulla, perché è nulla. Per questo, per questa sua coscienza nichilistica, la presenza del cristiano è insopportabile, e doppiamente insopportabile: perché nega significato alla radicale volontà di esserci e dunque nega la volontà di potenza, ma allo stesso tempo patisce in se stesso la passione del mondo”. Specie adesso che la vita quotidiana è socializzata in modo capillare, appare quasi impossibile resistere sul filo teso tra due sirene seducenti, ossia rifiutare le dinamiche illusorie del potere e rimanere però umanamente vulnerabili alle ferite che ci infliggono.
Eppure è su questa esperienza intermittente, o eco di una possibilità intravista nel passato, che l’autore misura tutti gli oggetti della sua analisi: la Chiesa in crisi, che anche quando vi fa riferimento in forme più o meno contraddittorie (Wojtyla, Bergoglio) non può accettare le conseguenze di una tale esperienza senza cancellarsi come gerarchia; l’arte contemporanea in cui si riflette una visione evangelica; lo studio storico-critico delle religioni, al quale rischia di sfuggire l’essenziale del loro vissuto; e alcune incarnazioni individuali dello spirito cristiano in una società che non lo è più, colte dall’autore nei bellissimi ritratti di Buonaiuti, Weil, Capitini, Illich, de Certeau e padre Dall’Oglio. Ma la figura più vicina alla Weltanschauung gaetiana mi sembra quella di un non cristiano, di un liberalsocialista o libertario singolarmente religioso: Nicola Chiaromonte, a cui fa pensare già il titolo del primo scritto, “Parola e silenzio”.
Come Chiaromonte, Gaeta invita a non proteggersi con una consolatoria malafede dalla massificazione nella quale siamo immersi, ovvero dalla coscienza di essere sottoposti a un dominio sociale e tecnologico che esercita su di noi la pressione di un fato apparentemente in grado di abolire qualunque alternativa esistenziale o comunitaria. Dobbiamo insomma, a suo parere, riconoscere la nostra “situazione apocalittica”, che nel Ventunesimo secolo coincide con l’orizzonte del nichilismo. Solo se rinunciamo ai risarcimenti irreali e teniamo lo sguardo fermo sul nostro nulla possiamo cambiare qualcosa; solo attraverso la decisione di abbandonare ogni velleità provvidenzialistica e ideologica, per dirla alla Capitini, possiamo aggiungere un po’ di libertà al mondo.