il messaggio in una chat
La penosa vicenda del cardinale Becciu si sarebbe potuta evitare
L'impressione è che l'operazione di pulizia e trasparenza tanto invocata e assicurata con slogan sulla “primavera che entra nelle finestre della Chiesa” sia fallita
Si è scelta la strada della giustizia tribale e non della trasparenza e questi sono i risultati: telefonate registrate e chat imbarazzanti. Come quella in cui il cardinale dice: "Il Papa vuole la mia morte"
“Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte”, scriveva in una chat il cardinale Giovanni Angelo Becciu nel luglio del 2021 alla parente Giovanna Pani. Colui che vorrebbe la sua morte è “su Mannu”, cioè il Papa. Il cardinale chiarisce, sempre nella chat: “Non vuole fare brutta figura per la condanna iniziale che mi ha dato”, “mai avrei immaginato (che) non un Papa ma (che) un uomo arrivasse a tanto”. Parole non al miele, insomma. Il contenuto delle conversazioni di Becciu sono state diffuse dal Promotore di giustizia vaticano nel corso del processo che si sta celebrando oltretevere e derivano da un’indagine svolta dalla Guardia di Finanza di Oristano su rogatoria del Vaticano. Giovedì, poi, si era saputo che il cardinale aveva registrato una telefonata con il Pontefice (da poco dimesso dall’ospedale dopo l’importante operazione chirurgica all’intestino) , in cui cercava conferme alla propria linea difensiva. La vicenda Becciu è penosa, per i protagonisti coinvolti e per la Chiesa. Altro che corvi svolazzanti all’epoca poco gloriosa di Vatileaks. Garantismo vuole che si sia innocenti fino all’ultimo grado di giudizio e che a stabilire o meno la colpevolezza sia un giudice terzo e imparziale.
Ciò premesso, la questione è un’altra. Lo stillicidio di chat, messaggi, pianti e stridore di denti era del tutto evitabile se si fossero seguiti i normali iter previsti dal diritto. Sarebbe bastato evitare di privare un cardinale dei diritti connessi al cardinalato basandosi su supposizioni, copertine di settimanali, voci e intuizioni. Becciu è rimasto cardinale a metà, poteva vestirsi di rosso ma non poteva partecipare agli eventi cui i cardinali partecipano. E in un eventuale Conclave, sarebbe entrato o no? Nessuno lo sa. Rimosso dalla sua carica il 24 settembre del 2020, è stato rinviato a giudizio solo il 3 luglio dell’anno successivo, senza che nel frattempo non fossero state rese note neppure le imputazioni o le presunte malefatte del porporato cacciato. E dovevano essere malefatte gravi, se il Papa gli aveva imposto la rinuncia ai diritti cardinalizi al termine di un’udienza serale. Il processo poi è andato come si sa, lungo e balbettante, tra accuse reciproche – anche e soprattutto a mezzo stampa – rivelazioni choc e attenzione a evitare, come è logico che sia, di coinvolgere il Pontefice che avrebbe altro a cui pensare. Il quadro che emerge è quello di una giustizia tribale, dove la trasparenza non è di casa e dove la potestà papale regna incontrastata su tutto e tutti. Come è lecito attendersi, appunto, da un regime assoluto qual è lo stato della Città del Vaticano.
Se all’istinto e all’impulso fosse stata anteposta una visione garantista (almeno un po’), è possibile che il Popolo di Dio non avrebbe assistito a questo misero spettacolo degno della sceneggiatura di una serie Netflix sui torbidi misteri in Vaticano o di romanzi da quattro soldi sui crimini all’ombra del Cupolone che tanto spopolano nei mesi estivi. L’impressione è che l’operazione di pulizia e trasparenza tanto invocata e assicurata con slogan sulla “primavera che entra nelle finestre della Chiesa” sia fallita. E a certificarlo è un cardinale che registra una conversazione telefonica con un Papa appena uscito dall’ospedale.
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