l'esempio
Benedetto XVI, il “Papa laico” che sapeva sfidare chi rifiutava la fede
B-XVI puntava alla Città di Dio, non a correggere le storture di questo mondo. Non dobbiamo avere timore di ricordarlo o di celebrarlo. Ne va del futuro del cristianesimo, perché non si affievolisca
Sulle onoranze da rendere a Benedetto XVI dobbiamo resistere alla tentazione, e magari qua e là all’intenzione, di abbassare i toni. Piuttosto, si deve fare il contrario. Perché se, come in questi giorni si dice autorevolmente, è scomparso “un altro Padre della Chiesa” o un “Dottore della fede” o un “nuovo Agostino”, allora siamo di fronte a un grande evento storico non solo della cristianità. Arrivati alla vigilia della tumulazione, la percezione di tanta grandezza sembra invece incerta e anche imbarazzata. Sulla modalità di celebrazione, sul rito, sui paramenti, sulle presenze, sull’affluenza, ancora si discute. Come se si fosse insicuri o timorosi o guardinghi.
Bene ha fatto il governo italiano a disporre le bandiere a mezz’asta. E bene faranno i fedeli, gli estimatori, il popolo tutto, ad accorrere numerosi per pregare con lui, rendere giustizia a lui, testimoniare la fede o anche solo l’ammirazione per lui.
Come Benedetto XVI è stato fatto oggetto di contumelie e denigrazioni, e anche sorde resistenze, in vita, così ora da morto sia pensato e onorato come un dono del cielo. Come fu trasformato in figura di discordia, diventi volto di perdono e amore. Perché l’uomo era così: non aveva pensieri se non limpidi, sentimenti se non sinceri, atteggiamenti se non di rispetto. Non che rifuggisse dalla critica e anche dalla polemica, ma gli era spontaneo, naturale, non studiato o calcolato, distinguere fra il piano delle idee sulle quali, una volta meditate a fondo, era inflessibile da quello delle persone, verso le quali era sempre comprensivo. Nessuno lo ha mai sentito dolersi (e certamente ne provò dolore) dell’affronto che gli fecero i docenti di una università che prima lo invitarono e poi lo respinsero. Nessuno ricorda una sua lamentela personale. Difficile trovare un altro come lui che avesse interesse tanto genuino a parlare, discutere, capire. Difficile pensare a un altro che potesse tanto spontaneamente mettere il suo interlocutore alla pari. Provava amicizia autentica anche verso chi lo aveva lasciato (“tradito” era una parola che non sarebbe stato in grado neppure di pronunciare).
Benedetto XVI aveva un interesse spiccato a intrattenere conversazioni con i cosiddetti “laici”. Chiamarlo un “Papa laico” non sarebbe un ossimoro. Senza atteggiamenti cattedratici, li sfidava. Che cosa significa “laico”? È laico il fondamento del pensiero laico? Oppure il pensiero laico ha compiuto un “distacco” dalla sua origine storica cristiana e una “emancipazione” dalla sua famiglia concettuale di origine che non sa come giustificare? Come render conto della uguaglianza fra tutti gli uomini, della loro comune dignità di persona? E se l’essere figli di Dio, a sua immagine, è la risposta (altra, altrettanto universale, non c’è), allora perché non riconoscere che a quell’immagine e solo nei limiti di quell’immagine sono legati diritti non negoziabili?
Dunque, c’è (deve esserci, c’è bisogno che ci sia) una legge sopra le nostre leggi, perché le nostre leggi non provano il valore di se stesse: che, ad esempio, un uomo sia uguale a una donna, che un uomo sia sempre un fine mai solo un mezzo, che la dignità sia una sua proprietà naturale, non sono teoremi che la ragione può provare, sono verità che la fede può credere. Scrisse un giorno Agostino, il teologo e santo tanto amato da Benedetto XVI: vae qui habent spem in saeculo!. State attenti voi laici a rifiutare o anche solo a porre fra parentesi la fede: pensate di essere più liberi e non vi accorgete che in realtà state recidendo le radici, la linfa, il nutrimento, di quella stessa libertà di cui dite di essere tanto orgogliosi. Semplicemente, il vostro secolarismo pecca di superbia e non risponde alle vostre domande.
Ecco un sentimento, un atteggiamento intellettuale, che Benedetto XVI non provava. Quella serenità dell’anima che traspariva dai suoi occhi, quel sorriso interiore che si vedeva sulle sue labbra, quella dottrina non solo teologica che si avvertiva dalla sua conversazione gli impedivano di essere superbo. Ora si comincia sempre più chiaramente a capirlo. Il suo pensiero cristiano indulgeva assai poco a correggere le storture di questo mondo (il secolo), a predicare la giustizia sociale o proclamare l’ecologia o esaltare l’umanitarismo o inclinare al sincretismo e assai di più a richiamare tutti alla Città di Dio.
Ora che in questa Città Benedetto XVI c’è entrato da umile servitore noi non dobbiamo avere timore di ricordarlo o pudore di celebrarlo. Perciò dobbiamo accorrere tutti: affinché il cristianesimo non si affievolisca, affinché non si secolarizzi anch’esso, affinché non diventi una narrazione consolatoria, affinché il nostro mondo non perda senso e speranza. E affinché lui, che ha vinto, non si archiviato come una pratica da sbrigarsi in fretta e poi proseguire come prima.
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