Una figura tragica
Benedetto XVI, Papa in un'èra non sua
I processi di secolarizzazione selvaggia erano andati troppo avanti per essere fermati durante il suo pontificato. Ratzinger è stato deluso anche dai cristiani che non sanno più declinare insieme fede e ragione
Quando fu eletto Papa il cardinal Ratzinger mi venne subito da pensare: bene, dopo l’attore di Cracovia ecco il teologo di Tubinga. Il Papa polacco era stata una bomba posta al di là della cortina di ferro. E contribuì non poco, insieme ad altre cause ben più profonde, all’esaurirsi di un esperimento già da tempo destinato a fallire. Fu comunque un detonatore mediatico di grande efficacia. Ma la sconfitta del cosiddetto comunismo era a quel punto gioco facile rispetto al ben più arduo compito affidato al Papa tedesco: la riconquista dell’Europa al cristianesimo perduto.
Missione fallita. I processi, non di una buona secolarizzazione, ma di una secolarizzazione selvaggia erano andati troppo avanti per poter essere fermati e respinti. Non a caso il successore è venuto dall’altra parte del mondo. La Chiesa, con la sua antica sapienza non per niente cattolica, sa ben dosare la figura di Papa che in quel momento serve.
Ratzinger è una figura tragica. Quando dice: a un certo punto mi sono accorto di non saper assolvere alla funzione del pastore che guida il suo gregge, sta dicendo che quella missione era impossibile. Benedetto XVI è un Papa deluso, deluso dalla Chiesa, dalla storia, deluso dai cristiani, che non sanno più declinare insieme fede e ragione, e vede l’una e l’altra non trovare più posto nell’anima della sua Europa. La fede è ridotta a giaculatoria e la ragione a strumento. I mezzi hanno sostituito ogni fine. Il pensiero del Mistero, che era la sua vocazione non di condottiero ma di maestro, non interessava più a nessuno. Era forse comunicabile per qualcuno ma incomprensibile per i più. Tornava, nei suoi libri, con Agostino, alla figura di Gesù, la riattraversava per intero, più che per offrire un modello, per ritornare a un punto fermo da cui ripartire. Ratzinger, al di là del suo pontificato in un secolo che non era il suo, è stato un pensatore del Novecento. Bisogna farci i conti da qualunque parte, politica e culturale, si provenga.
Un Papa conservatore? Dovremmo tutti imparare a non sbeffeggiare questa parola. In un mondo e in un tempo in cui si portano i valori al mercato e si vendono come prodotti a scadenza ravvicinata, evocare valori non negoziabili serve a contrastare questa deriva. Conservare il meglio del passato diventa allora un atto di rinnovamento. “Superare conservando” ci ha insegnato una volta per tutte il vecchio Hegel, dai cui rami tutti discendiamo. Dico sempre ai miei compagni, che inutilmente si chiamano progressisti: studiate la complexio oppositorum, che la forma politica del cattolicesimo romano ha elaborato e sperimentato in secoli di presenza nella storia umana. Imparerete a fare politica un po’ meglio di quanto fate oggi. C’è altrettanta politica negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola di quanta ce n’è nel Che fare? di Lenin, ammesso che quest’ultimo testo sia ancora nelle loro letture.
Quello di Ratzinger era un pensiero forte, il relativismo non abitava dalle sue parti. Ma il suo Assoluto era affrontato con l’esercizio di una ragione flessibile, ben coltivata, in un credere mai dogmatico, sempre in ricerca. Il suo gesto di lasciare così drammaticamente, è stato come il passaggio da Papa a monaco, sull’esempio dei Padri del deserto, che in quel ritiro esprimevano la massima contestazione a come andavano le cose del mondo.
Papa Bergoglio, nel Te Deum di fine anno in S. Pietro, ha voluto fare un elogio della gentilezza. Era anche riferito al suo predecessore, nel giorno stesso della sua scomparsa. Papa gentile lo ha definito. E’ vero, aveva un portamento lieve, nel parlare come nel gestire. Un sorriso quasi timido. Più che un presentarsi, uno sfuggire. Un’autorità che era tale, ma tale non voleva mostrarsi.
Il pensiero forte può dimorare in un animo gentile. Non solo può, ma deve. Così la forza non diventa facilmente prevaricazione e la gentilezza non diventa facilmente subordinazione. Mi sono tornati in mente i versi di Bertolt Brecht, che, per chi ha la mia storia, sono sempre presenti: “noi che eravamo nati per la gentilezza, / noi, non potemmo essere gentili”.
Devo dire che assisto con disagio a questa sovraesposizione mediatica delle esequie di Ratzinger. Credo che non avrebbe apprezzato di essere accostato alla spettacolarità di quelle di una regina Elisabetta. In quelle parole, che pare siano state le sue ultime: “Signore, ti amo”, c’era il solo rapporto che per lui contava, non con questo mondo, ma con quell’altro in cui fervidamente e razionalmente credeva. Davanti a quelle parole, credenti o non credenti non possiamo che chinare la fronte.