il ricordo
Il mio caro Professor Ratzinger. Un necrologio intellettuale
Ratisbona e Bundestag restano essenziali per tutti, credenti e laici. Santità, libertà e religione in un mondo secolare. Un elogio funebre firmato dall’ultimo vincitore del Premio dedicato a B-XVI
Questo non vuole essere un classico necrologio, simile ai molti che avrete letto sui giornali dopo la morte di Benedetto XVI e che ripercorrono la vita e le opere di questo leader religioso e morale. E ovviamente, sarebbe ridicolo anche tentare di coprire l’intera suggestiva opera di questo grande intellettuale. Servirebbe più di un libro (e alcuni esistono già).
Un Papa parla urbi et orbi, come vescovo di Roma, ma anche come guida morale per il mondo intero, per persone che appartengono a tutte le fedi, inclusa quella laica. E mai questo è stato più evidente che in una serie di significativi discorsi, tenuti da Benedetto XVI, a relativa poca distanza l’uno dall’altro – alle Nazioni Unite a New York, al College des Bernardins a Parigi, al Palazzo di Westminster a Londra, ma soprattutto nei suoi celebri interventi a Ratisbona e nel discorso al Bundestag tedesco.
Voglio riprendere solo alcuni temi che hanno attraversato tutti questi discorsi, ma in modo particolare gli ultimi due, che erano e restano attuali (direi essenziali) per tutti noi, credenti e laici.
Leggere Ratzinger è, per certi versi, come leggere le Scritture. È aperto a più di un’interpretazione. Quella che segue è quindi la mia interpretazione, senza alcuna pretesa che sia l’unica e neanche la migliore possibile. Caveat lector! Lascio a un’altra occasione le mie riflessioni sulla sua autorevole opera su Gesù e sul suo modo audace di trattare i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo.
I - Libertà di e libertà dalla religione in un mondo secolare
Qual è la “religione civica” che accomuna tutti noi europei? Sicuramente crediamo nella necessità di avere una democrazia liberale come quadro in cui dovrebbe svolgersi la nostra vita pubblica. Elezioni libere con suffragio universale, tutela dei diritti umani fondamentali e stato di diritto costituiscono la “santa trinità” di questa fede civica.
La libertà di religione è sancita in ogni costituzione europea. Ma è comunemente intesa, a titolo giusto, anche come inclusiva della libertà dalla religione. Libertà religiosa positiva e negativa nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La libertà dalla religione, tuttavia, pone una sfida alla teoria liberale. Non abbiamo una nozione simile, ad esempio, della libertà dal socialismo. O della libertà dal neoliberalismo. Se un governo socialista viene eletto democraticamente, ci aspettiamo politiche che derivano e implementano una visione socialista del mondo, ovviamente nel rispetto dei diritti delle minoranze. E, volenti o nolenti, ci si aspetta che osserviamo le leggi che concretizzano queste politiche, anche se non siamo socialisti. Lo stesso sarebbe vero per, diciamo, un governo neoliberista.
Ma se a essere eletto è un governo di orientamento cattolico, prendere sul serio la libertà dalla religione significa per questo governo avere le mani legate nel far passare leggi derivanti dalla sua visione religiosa del mondo.
In effetti, uno dei più grandi filosofi della politica del XX secolo, John Rawls, ha sostenuto che la nostra stessa pratica democratica, a prescindere dal fatto che sia di destra o di sinistra, deve essere sempre basata su argomenti derivati dalla ragione umana, le cui regole possono essere condivise da tutti indipendentemente dall’orientamento ideologico e quindi essere aperta alla persuasione e al cambiamento d’opinione. La religione, ha affermato Rawls senza annettervi una connotazione dispregiativa, è basata su verità incommensurabili e non negoziabili, autoreferenziali e trascendentali. E quindi, inadatte all'arena democratica.
Abbiamo, così, due sfide al cuore della nostra società multiculturale composta da laici e credenti:
La prima: come può la teoria liberale spiegare e giustificare la libertà dalla religione? Ci sono naturalmente molti tentativi di razionalizzare la questione all’interno di un quadro liberale. Non trovo nessuno di questi davvero convincente. In definitiva, se un socialista ha il diritto di imporre la sua visione del mondo alla società, perché lo stesso dovrebbe essere negato a un cattolico?
E la seconda, quella rawlsiana: che pretesa hanno i gruppi di credenti di partecipare alla vita democratica – come persone di fede – se, in effetti, la visione religiosa del mondo è (e lo è) legata a verità non negoziabili, autoreferenziali e trascendentali?
A mio avviso, Benedetto, con i suoi discorsi a Ratisbona e al Bundestag, ha dato la più convincente risposta a queste due sfide.
II
Benedetto ha dato un apporto determinante al Concilio Vaticano II e, allo stesso tempo, il Concilio Vaticano II è stato determinante nell’orientare la successiva dottrina di Benedetto. Giovanni Paolo II, seguito da Benedetto, aveva l’abitudine di rivendicare la libertà di religione come la più fondamentale di tutte le libertà. Nella nostra cultura laica questo veniva generalmente accolto con un sorriso indulgente: “Quale libertà ti aspetteresti che un Papa possa privilegiare?”, interpretando tale affermazione in senso corporativista, come se il Papa fosse un leader sindacale preoccupato di assicurare benefici ai suoi membri. Non c’è niente di ignobile nel pastore che si prende cura del suo gregge, ma questa interpretazione non riesce a cogliere il vero punto dietro la posizione del Pontefice.
Ciò che non aveva ricevuto abbastanza attenzione, in tutto l’enorme baccano determinato dai commenti del Papa a Ratisbona, era il fatto che nella libertà religiosa a cui alludeva il Pontefice l’attenzione era concentrata sulla libertà dalla religione: la libertà di aderire alla religione scelta da ciascuno o di non essere affatto religioso. Benedetto ha articolato con forza tutto questo e ha fatto emergere in modo esplicito ciò che già era espresso della Dignitatis Humanae del Vaticano II, che aveva enfatizzato Giovanni Paolo II e che sicuramente fa parte anche del magistero di Papa Francesco.
Nota bene: la sua giustificazione e difesa della libertà dalla religione non era un’espressione di o una concessione alle nozioni liberali di tolleranza e libertà. Era l’espressione di una profonda proposizione religiosa. “Non imponiamo la fede a nessuno. Tale proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi solo nella libertà”, asserì il Papa a Ratisbona parlando ai suoi fedeli e al mondo intero. Quindi, al centro della libertà religiosa c’è la libertà di dire “No” perfino a Dio.
Quella libertà deve ovviamente avere una dimensione esterna: lo stato deve garantire a tutti la libertà di e la libertà dalla religione per legge. Ma, non meno importante, per come ho compreso il suo messaggio, era la libertà interiore. Noi ebrei diciamo: “Tutto è nelle mani di Dio tranne il timore di Dio”. Così ha voluto Dio – lasciando a noi la scelta. La vera religiosità, un vero Sì a Dio, può venire da un essere che ha non solo le condizioni materiali esteriori, ma anche la capacità spirituale interiore di comprendere che la scelta, del Sì o del No, e la responsabilità di questa scelta, sono nostre.
Benedetto ha dunque fatto della libertà dalla religione una proposizione teologica. Questo, a sua volta, ha un profondo significato antropologico. La libertà religiosa tocca la nozione più profonda dell’essere umano come agente autonomo con la facoltà di scelta morale, anche di fronte al suo proprio Creatore. Quando l’ebraismo e il cristianesimo esprimono il rapporto fra Dio e l’uomo in termini di alleanza celebrano quella doppia sovranità: la Sovranità dell’offerta divina e la sovranità dell’individuo a cui è offerta.
Penso che tutti, credenti e laici, possano capire che se si dovesse accettare l’esistenza di un Creatore onnipotente, insistere come proposizione religiosa intrinseca sulla libertà di dire No a un tale Creatore è fondamentale per la comprensione stessa della nostra condizione umana. È in questo senso primordiale che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sostenuto il primato della libertà religiosa: essa si erge come emblema all’ontologia stessa della condizione umana. Di cosa significa essere umani.
Allo stesso modo, non è necessario essere religiosi per capire perché ogni violazione della libertà religiosa così intesa costituisca un profondo attacco non solo alle persone di fede e non solo a una particolare libertà di coscienza individuale, ma al nucleo della nostra umanità come agenti morali.
Si può fare un ulteriore passo avanti. Citando Giacomo, Benedetto XVI spiega, nella omelia di Ratisbona (cui si è prestata troppo poca attenzione) che “la legge regale”, la legge della regalità di Dio, è anche “la legge della libertà”. Questo è sconcertante: se, esercitando tale libertà, si accetta la legge regale trascendentale, come può questo costituire un effettivo miglioramento della propria libertà? La legge non implica, per sua stessa natura, accettare restrizioni alla nostra libertà?
Capisco che Benedetto abbia detto che agendo al di fuori dei vincoli della legge di Dio io divento semplicemente schiavo della mia condizione umana, dei miei desideri umani. Nelle parole di sant’Ambrogio: “Quoam multos dominos habet qui unum refugerit!” Accettare la legge di Dio, come “legge regale”, la legge di Colui che trascende questo mondo, è affermare la mia libertà interiore nei confronti di chiunque e di qualunque cosa sia di questo mondo. Non c’è miglior antidoto a ogni forma di totalitarismo in questo mondo. Questa è vera libertà.
III
Che dire allora della seconda sfida, quella rawlsiana? Nella mia comprensione del discorso del Bundestag, Benedetto non ha rifiutato la premessa rawlsiana: la pratica democratica, il “dare e avere” della nostra vita pubblica, deve essere basato su una comprensione condivisa della ragione che trascenda le divisioni ideologiche come sinistra e destra allo stesso modo in cui tutti capiamo che due più due fa quattro. Tale discorso non può avvenire con un interlocutore le cui posizioni si basino su verità non negoziabili, autoreferenziali, trascendenti.
Senza menzionarlo per nome, Ratzinger ha contestato non la premessa di Rawls, ma la sua comprensione errata del cristianesimo.
Quando il cattolico, sosteneva Benedetto, entra nello spazio pubblico per avanzare richieste sulla normatività pubblica che può divenire vincolante per legge, non fa tali richieste basandole sulla rivelazione e sulla fede o la religione (sebbene possano coincidere con queste). Fa parte, come abbiamo visto, dell’antropologia cristiana, che gli esseri umani sono dotati della facoltà della ragione, comune all’umanità che, anzi, costituisce il linguaggio legittimo della normatività pubblica generale.
Il contenuto della domanda cristiana all’interno della sfera pubblica sarà quindi nell’ambito della ragion pratica – la morale e l’etica come spesso espresse attraverso la legge naturale. Se posso fare un esempio: quando Caino uccise Abele non si voltò e disse al Signore: tu non mi hai mai detto che era proibito uccidere. Né il lettore delle Scritture solleva una simile obiezione. Resta inteso che in virtù della loro creazione (per i credenti a immagine di Dio) tutti noi abbiamo la capacità di distinguere tra il giusto e l’ingiusto e non abbiamo bisogno della rivelazione divina per questo.
Anche questa non è una concessione al secolarismo. È un risultato inevitabile delle proposizioni religiose che hanno informato il discorso di Ratisbona. Adottare una norma pubblicamente vincolante basata esclusivamente sulla fede religiosa e sulla rivelazione violerebbe proprio quell’impegno profondo, religiosamente fondato, per la libertà religiosa, per cui la fede forzata è una contraddizione ed è contraria alla volontà divina.
È anche una proposizione coraggiosa. Sì, da un lato costituisce il visto d’ingresso del cattolico nella pubblica piazza normativa da pari a pari. Allo stesso tempo, impone una seria e severa disciplina alla comunità di fede. La disciplina della ragione potrebbe costringere a rivisitare le posizioni morali. Non si ha più quel Jolly nel mazzo di carte: “Questo è ciò che Dio ha comandato”. Questo non fa parte della ragione pubblica condivisa. Se si adotta una lingua, bisogna poi parlarla correttamente per essere capiti ed essere convincenti. E questo vale anche per il linguaggio della Ragione.
Ratisbona e Berlino appartengono quindi allo stesso percorso: sono basati sulla stessa logica. Sono due facce della stessa medaglia.
IV - Il valore della santità
Passo ora a quello che considero uno straordinario insegnamento rivolto specificamente alla comunità dei fedeli e che si ritrova opportunamente nella omelia di Ratisbona piuttosto che nel famoso discorso alla comunità accademica. Il nesso tra normatività generale e ragione è seducente e per certi versi costitutivo dell’identità cristiana. Ma qui si annida un pericolo interessante per l’homo religiosus. È il pericolo di ridurre la propria religiosità all’etica come espressa spesso nel diritto naturale, per quanto importante possa essere.
“Le questioni sociali e il Vangelo sono inseparabili” è stato uno dei messaggi centrali della omelia di Ratisbona. È una frase che colpisce e per me la domanda più interessante è: perché il Papa ha ritenuto necessario ricordare al suo gregge che le preoccupazioni sociali e il Vangelo sono inseparabili? Comincerò ora a rispondere a questa domanda, con l’ovvia umiltà e diffidenza che deriva dal fatto che io, estraneo, sconfino nel terreno di una comunità di fede a cui non appartengo. Se mi sbagliassi, sarei felice di essere corretto.
Il Papa metteva in guardia noi, i credenti in generale, e più specificamente il suo gregge cattolico, dal pericolo di ritenere che l’esigenza cristiana di normatività pubblica espressa attraverso il linguaggio della ragione generale applicabile a tutti gli esseri umani, esaurisca il significato di una vita religiosa o addirittura di una normatività cristiana. Le “questioni sociali”, come espressione di moralità ed etica, sono centrali per le religioni abramitiche, ma da sole non definiscono né la sensibilità e l’impeto religioso né il senso religioso. Dopotutto, la religione non ha il monopolio della moralità e dell’etica. Un ateo può condurre una vita etica e avere un interesse per le questioni sociali non meno nobile dei credenti.
La categoria religiosa per eccellenza, quella che non ha equivalenza, nessuna corrispondenza, in una visione laica del mondo, è la santità. Ridurre la religione esclusivamente a preoccupazioni etico-sociali, per quanto importanti siano queste, porta a sminuire fatalmente il significato della santità. Certo, la santità non è disgiunta dall’etica e dalla moralità. La moralità e l’etica sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per la santità. La santità non si esaurisce nell’etica e nella morale. Denota qualcosa di più: la vicinanza all’amore di Dio per noi e al nostro amore per Lui, la Sua presenza in tutta la nostra esistenza.
Voglio condividere un famoso passaggio delle Scritture, che si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento – “Ama il tuo prossimo come te stesso” – che credo coincida perfettamente con l’insistenza di Benedetto nell’omelia sul fatto che le questioni sociali e il Vangelo sono inseparabili.
Dove si incontra per la prima volta questo passaggio? È nel Levitico, capitolo 19. Un capitolo molto speciale in tutta la Bibbia poiché affronta esplicitamente la nozione di santità. “Il Signore disse ancora a Mosè: ‘Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo’. (Lev. 19: 1,2)
È in questo capitolo che si trova il precetto “Ama il tuo prossimo”. Ma tendiamo tutti a dimenticare la fine di quel passaggio. Non è semplicemente “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma “Ama il prossimo tuo come te stesso, io sono il Signore”. Ed è questa parte finale che introduce l’homo religiousus alla nozione di santità, che va oltre la morale comune a tutta l’umanità.
Voglio sottolineare che a mio avviso il “valore aggiunto” della santità non rende il religioso superiore ai suoi confratelli laici. Lo rende semplicemente diverso.
Permettetemi di indagare il significato profondo di “Ama il tuo prossimo come te stesso – Io sono il Signore” e offrirne un’interpretazione. Innanzitutto, nella prescrizione dell’amore si va oltre la nostra normale comprensione del comportamento etico che può tradursi nel diritto naturale. Nessuno si sognerebbe di trasporre in una legge laica il dovere di amare il nostro prossimo. Questa è piuttosto manifestazione della normatività cattolica, squisitamente espressa nel Vangelo secondo Matteo: “E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due”.
In secondo luogo, la parte finale – Io sono il Signore – spiega perché questo famoso passaggio si trovi in un capitolo che inizia con la prescrizione di cercare la santità. Quando adempiamo all’obbligo di amare il prossimo, non solo esprimiamo il nostro amore per il prossimo e per noi stessi. La sua realizzazione è anche espressione del nostro amore per il Signore. Ed è qui che sta la santità.
È significativo per me che Benedetto ci abbia dato questo insegnamento nel contesto della celebrazione eucaristica. Perché, per come posso comprenderli, i vari sacramenti, la preghiera, la messa in genere e la celebrazione eucaristica in particolare, così come tutte le altre pratiche simili sono i mezzi con cui la Chiesa esprime l’amore e la devozione al Signore. E questo di sicuro va oltre il condurre semplicemente una vita etica.
Così, per lo meno, comprendo io l’insistenza di Benedetto sul fatto che le questioni sociali sono inseparabili dal Vangelo. E forse perciò, accanto al tanto commentato discorso al mondo accademico, ha offerto questa particolare omelia alla comunità dei fedeli. Se c’è qualche merito in questa interpretazione, è che racchiude in sé una notevole ironia storica. Nell’età di Profeti quali Amos e Isaia, e ovviamente nel Vangelo, ai fedeli doveva essere ricordato che fede e santità non si potevano raggiungere semplicemente seguendo i sacramenti e rituali se questi non erano accompagnati da un comportamento etico e dalla Legge regale dell’Amore.
Oggi la situazione è rovesciata e bisogna ricordare ai credenti che la ricchezza del senso religioso non si esaurisce semplicemente nel condurre una vita etica e solidale. Condurre una vita etica è una condizione necessaria ma non certo sufficiente. La condotta etica e solidale deve essere accompagnata da un rapporto con il divino, attraverso la preghiera, attraverso i sacramenti, cercando la mano del Creatore nel mondo che Lui ha creato.
È la ricerca della santità in questo duplice modo che ho letto nell’omelia del Pontefice.
È parte della condizione moderna che rende molti tra i fedeli quasi imbarazzati dal Vangelo, dai sacramenti, nonché dalle affermazioni, dalle parole usate e dalle pratiche che esprimono gli aspetti sacramentali della loro religione e fede. Questi appaiono, ironia delle ironie, come “irragionevoli”. (Prova a dirlo a san Tommaso D’Aquino o a sant’Agostino!) E questo fenomeno è diffuso fra tutti i figli di Giacobbe/Israele.
Il profeta Michea predicava: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6:8). Cammina umilmente, non di nascosto!
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Vorrei concludere con una nota personale. Ho avuto il privilegio di incontrare Papa Benedetto in tre occasioni: una volta nel 2013, poco prima del suo pensionamento – un incontro piuttosto breve in cui gli ho presentato due delle mie figlie. La seconda occasione è stata qualche anno dopo, quando su sua richiesta fui invitato, con mia sorpresa, poiché non ero mai stato formalmente uno studente di Ratzinger, a tenere la conferenza principale al celebre Ratzinger Schülerkreis, dopo la quale ebbi il puro piacere di una lunga conversazione a tu per tu con il Papa Emerito – pura teologia. E infine, il nostro ultimo incontro si è tenuto circa un mese fa, insieme ai padri Fedou, Lombardi e Gänswein, in occasione del Premio Ratzinger 2022. Questi incontri mi sono rimasti indelebilmente impressi nella mente. Le sue parole di commiato rivolte a me furono significative e commoventi: “Per favore, mi ricordi alle sue figlie”.