dentro le opere
Lo spirito del concilio secondo il prof. Ratzinger
L’ermeneutica del Vaticano II per Benedetto XVI, alle prese con il quesito supremo della Chiesa: che risposta dare alle gioie e alle angosce dell’uomo moderno?
Sono contento che mi sia data questa occasione per presentare, quasi “incarnato” in una persona, in un teologo, in un Papa, il percorso post conciliare, a grandi linee, della ermeneutica (esegesi, spiegazione) del Magno Sinodo, – come ho sempre chiamato il Concilio ecumenico Vaticano II. Prima di affrontare il tema vorrei ricordare che per me la conoscenza di questo grande avvenimento ecclesiale in sé e per il mondo (non dico “evento” per ragioni storiografiche che più volte ho già presentate nei miei libri) comprende tre gradini, nessuno dei quali può essere saltato.
Si tratta della sua storia, la più obiettiva e fedele possibile, la corretta sua interpretazione (chiamiamola questione ermeneutica) e finalmente la ricezione (accoglienza, accettazione, realizzazione…). Dirò poi subito che mi servo nel mio procedere di un’opera fondamentale per la presentazione post-conciliare di Joseph Ratzinger – è il tema qui, molto più interessante poiché egli non fece parte della minoranza conciliare –, costituita dal vol. VII/2 della di lui “Opera Omnia” (“L’insegnamento del Concilio Vaticano II”, L.E.V. 2019, nella sua III Parte -F- dedicata alla “Recezione”, p. 431-586).
Inizio con una Conferenza del Prof. Ratzinger dal titolo “Il Cattolicesimo dopo il Concilio”, rilevando subito qui il mio interesse particolare per la dimensione propriamente cattolica della ermeneutica conciliare, per la mia profonda convinzione che se essa mancasse ne soffrirebbe non solo la Chiesa cattolica stessa ma anche il movimento ecumenico, affermazione ampiamente da me fondata in altro luogo (v. Cullmann). Ma vengo subito al nocciolo della questione, per il prof. Ratzinger, e cioè il fatto che i fedeli sono meno uniti di prima: per alcuni, il Concilio ha fatto ancora troppo poco, si è arenato ovunque nel suo slancio, è risultato un conglomerato di prudenti compromessi, una vittoria della tattica diplomatica sull’impeto dello Spirito Santo che non vuole sintesi complicate ma la semplicità del Vangelo; per altri, è invece uno scandalo, un cedimento della Chiesa allo spirito malvagio di un’epoca in cui l’offuscamento del senso di Dio è conseguenza del suo selvaggio attaccamento a ciò che è terreno (p. 433).
I suoi termini sono così per me delineati dal teologo in parola già nel ’66 che aggiunge: “Qui si può solo cercare di cogliere un po’ più precisamente, in alcuni punti, quel malessere che abbiamo constatato come situazione presente della Chiesa dopo il Concilio, formulando così con maggiore chiarezza il compito impostoci dall’ora presente” (p. 434).
Mi limito tuttavia a indicare solamente i campi del “malessere”, vale a dire, per primo, “la situazione del rinnovamento liturgico”, “divenuto per molti un segno di contraddizione”, e mi occupo solo qui di alcune citazioni di critica che iniziano con un “e chi potrebbe negare l’esistenza di esagerazione e unilateralità che sono scandalose e non appropriate? È proprio necessario che ogni messa sia celebrata versus populum? È proprio così importante poter guardare in faccia il sacerdote, o non è più salutare spesso pensare che anch’egli è un cristiano fra gli altri e ha tutti i motivi per rivolgersi a Dio insieme a loro e per dire con loro ‘Padre nostro?’” (p. 442).
Non tralascio un rigo di particolare importanza, con l’esortazione a “non dimenticare che celebrare la cena del Signore per natura sua significa fare una festa” (p. 444) e che “esiste una legge della continuità la quale non si può impunemente trasgredire”, cosa che “richiede all’interno della Chiesa un alto grado di tolleranza…, il sopportarsi a vicenda, e la longanimità dell’amore, poiché la liturgia più autentica della cristianità è l’amore” (p. 445).
Un altro campo di “malessere” il prof. Ratzinger lo racchiude sotto al titolo “Chiesa e mondo”, “ambito in cui si avverte con chiarezza la nuova mentalità del Concilio” (ib.). E qui si attesta che “contrariamente a ciò che l’ottimismo dell’idea di incarnazione aveva talvolta esplicitamente garantito, c’è nel Nuovo Testamento una chiara precedenza del tema della croce rispetto al tema dell’incarnazione, anzi, la tematica dell’incarnazione è nella Bibbia già di per sé teologia della croce, poiché l’incarnazione già significa darsi di Dio ed è dunque il primo e decisivo passo verso la croce” (p. 449).
Vi fu qui una semplificazione che “conduce a una teologia della speranza che sembra quasi ai limiti di un ingenuo ottimismo”, la quale divenne “una ragione fondamentale di confusione spirituale che conduce non di rado a un fraintendimento del Concilio” (p. 451). Una cosa comunque va detta a tale proposito, – aggiunge Ratzinger – un rivolgersi della Chiesa al mondo che dovesse rappresentare un suo allontanamento dalla croce non porterebbe a un rinnovamento della Chiesa, ma alla sua fine (ib.). “Detto con altre parole: la fede cristiana è uno scandalo per l’uomo di ogni tempo, lo scandalo che il Dio eterno si occupi di noi uomini e ci conosca, che l’Inafferrabile sia divenuto percepibile nell’uomo Gesù, che l’Immortale abbia patito sulla croce, che a noi mortali siano promesse risurrezione e vita eterna: credere questo è per l’uomo un’impresa sconcertante. Il Concilio non ha potuto e non ha voluto eliminare questo scandalo cristiano. Ma dobbiamo aggiungere: questo scandalo primario, che è ineliminabile se non si vuole eliminare il cristianesimo stesso” (p. 452).
L’ultimo campo di malessere è “la svolta ecumenica” (p. 454). E anche in questo ambito Ratzinger si domanda: “Chi avrebbe osato sperare che sarebbe sorta una ricerca così appassionata delle opportunità di prossimità e di comprensione, una così viva disponibilità a rivedere ciò che fino a quel momento era ovvio e sembrava l’unica cosa possibile, per trovare il modo di superare la pura e semplice richiesta di un ritorno e giungere così alla possibilità di un’unione che non significasse assorbimento, ma incontro reale nella verità e nell’amore del Signore, che sta al di sopra di noi tutti e tutti abbraccia e sostiene? (ib.).
Il teologo così continua: “È naturale peraltro che nella realtà di tutti i giorni queste cose incontrino delle difficoltà… C’è da parte protestante… una certa sfiducia. E c’è naturalmente anche quella fretta ingenua che dichiara esaurita la teologia controversista, che non vuole più vedere nessuna differenza, che banalizza tutto, riportando ogni cosa a puri e semplici malintesi dietro ai quali emerge ora d’un tratto la grande intesa di fondo; questa fretta ingenua, troppo semplicisticamente, vede ormai solo il plurale ‘le Chiese’ e dimentica di prendere sul serio l’ardua pretesa per cui la Chiesa cattolica, pur entro l’adozione del plurale, osa e deve osare tuttavia il paradosso di attribuirsi, in un modo unico nel suo genere, il singolare ‘la Chiesa’. E questo progressismo acritico ridesta poi a sua volta il contraltare, e cioè l’integrismo, che sospetta l’ecumenismo di non essere cattolico e trova tanto più facilmente aderenti quanto più superficialmente viene trattata qua e là la questione ecumenica” (p. 455 e seg.). “E così, anche qui, la forma concreta della gratitudine deve restare la pazienza. Essa è la forma quotidiana dell’amore, in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza” (p. 456).
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Altro punto di coagulo significativo per la nostra questione è l’intervento di Ratzinger a partire da una affermazione dell’allora card. Montini, questa: “A differenza di molti altri concili, il Vaticano II si riunisce in un momento di tranquillità e di fede ardente della vita della Chiesa”. Ne è titolo “A dieci anni dall’inizio del Concilio: a che punto siamo?” (p. 467- 504).
Ratzinger si domanda invece cosa sia accaduto e si chiede altresì se non sia stato forse il Concilio a generare la crisi, dato che esso non ne aveva nessuna da superare, come Montini aveva attestato. Dopo aver fornito alcuni elementi da considerare, il futuro cardinale e Papa delinea un cristallizzarsi di due modelli opposti di superamento della realtà: quello neopositivista e quello neomarxista. In ogni caso il nuovo movimento significa distacco dalla storia e distacco dalla metafisica. Magari su sfondo di una concezione spirituale.
“Le asserzioni e attenzioni del Vaticano II sono potute [così] risultare superate, per essere sostituite prima dall’utopia di un prossimo Vaticano III e poi dai sinodi, che del Vaticano II hanno accettato lo ‘spirito’ ma non i testi” (p. 469 e seg.). Ne risultano vari orientamenti, ma faccio cenno qui solo “a quelle forze che hanno propriamente reso possibile e preparato il Vaticano II, ma sono state subito travolte da un’ondata di modernità con cui potevano esser confuse solo per un errore madornale. Si tratta di una teologia e di una pietà che si fondano essenzialmente sulla Sacra Scrittura, sui Padri della Chiesa e sul grande patrimonio liturgico della Chiesa universale. Al Concilio, questa teologia si era adoperata perché la fede attingesse non solo al pensiero dell’ultimo secolo, ma alla grande corrente di tutta quanta la Tradizione, così da rendere quella fede più ricca e più viva, e al tempo stesso anche più semplice e più aperta. Per il momento questo tentativo sembra fallito; esso è rimasto impotente di fronte a più facili programmi che da allora gli si sono sostituiti. Malgrado ciò, crescenti indizi fanno pensare che l’impulso di questa teologia non sia andato a vuoto. Molti sono i sintomi che fanno sospettare una sua ripresa e qui, a mio giudizio, sta la speranza della nostra situazione presente” (pp. 473-474).
Prima di giungere alla successiva questione, in continuità, con il tema “la recezione a dieci anni dall’inizio del Concilio”, desidero ricordare un bouquet di giudizi di valore del prof. Ratzinger nel rapporto conciliare Chiesa-mondo che sono: “Il settarismo non può essere accettato, ma non deve nemmeno essere eluso quell’esame di coscienza necessario, specialmente nei riguardi di una sempre maggiore fusione con ciò che si denomina progresso (pp. 495-496). Quando lo spirito del Concilio è rivolto contro la sua parola ed è solo vagamente distillato dal processo che va verso la Costituzione pastorale, quello spirito diventa un fantasma e porta all’assurdo. Le distruzioni che ha causato un tale atteggiamento sono talmente evidenti che non ci può essere seriamente discussione al riguardo. Allo stesso modo è divenuto chiaro che il mondo nella sua moderna configurazione non rappresenta più da lungo tempo una realtà unitaria.
Il progresso della Chiesa – va detto una volta per tutte – non può consistere in un tardivo abbraccio della modernità: questo ci ha irrevocabilmente insegnato la teologia dell’America latina e in questo consiste il diritto al suo grido di liberazione. Se la descrizione critica degli ultimi dieci anni porta a queste conclusioni, se essa fa emergere con chiarezza come sia necessario leggere il Vaticano II per intero, vale a dire orientati ai suoi testi teologici centrali, e non viceversa, allora questa riflessione potrebbe essere fruttuosa per tutta la Chiesa e aiutare al consolidamento con una sobria riforma.
Non è la Costituzione pastorale a rinunciare alla Costituzione sulla Chiesa, né questa tanto meno è l’intenzione, presa isolatamente, dei paragrafi iniziali, ma al contrario: spirito del Concilio è in realtà solo tutto l’insieme nella sua giusta centratura. Questo significa che va annullato il Concilio stesso? Assolutamente no. Significa solo che l’autentica recezione del Concilio non è ancora iniziata”.
“Certo non possiamo tornare al passato, e nemmeno lo vogliamo. E tuttavia dobbiamo essere disposti a riflettere nuovamente su ciò che, nel mutare dei tempi, è quel che sostiene davvero. Cercarlo in modo fermo e osare senza sconti la follia del vero con cuore lieto mi sembra essere il compito per oggi e per domani: è l’autentico nocciolo del servizio della Chiesa al mondo, la sua risposta alle ‘gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini d’oggi’” (p. 500).
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Ma siamo ancora “A dieci anni dal Vaticano II” con “Tesi sul tema” (pp. 501-504) e “Un bilancio del Postconcilio: fallimenti, compiti, speranze” (pp. 505-522). Per quell’“unità dell’unico soggetto Chiesa”, parte finale della formula di ermeneutica corretta di Ratzinger, pienamente dispiegata al suo giungere al sommo pontificato, egli attestava che “il Vaticano II oggi sta sotto una luce crepuscolare. Dalla cosiddetta ala progressista, già da molto tempo, è ritenuto completamente superato e di conseguenza come un fatto del passato ormai non più rilevante.
Dalla parte opposta, al contrario è ritenuto la causa prima dell’attuale decadimento della Chiesa cattolica ed è giudicato come un rinnegamento del Vaticano I e del Concilio di Trento: è sospettato di eresia. Di conseguenza si pretende la sua revoca o una revisione che equivale alla revoca. Riguardo a entrambe le posizioni va precisato innanzitutto che il Vaticano II è supportato dalla stessa autorità del Vaticano I e del Tridentino, cioè dal Papa e dal collegio dei vescovi in comunione con lui; e che, anche dal punto di vista dei contenuti, si pone strettamente in continuità con i due concili precedenti e in punti decisivi li riprende alla lettera, tanto che ne vengono ripetute proprio le formule particolarmente caratteristiche e acute: “pari pietatis affectu”, “ex sese, non ex consensu ecclesiae”. Da qui derivano due tesi:
a) È impossibile schierarsi a favore del Vaticano II e contro il Tridentino e il Vaticano I.
b) Allo stesso modo è impossibile schierarsi a favore del Tridentino e del Vaticano I, ma contro il Vaticano II (p. 501 e seg.)
Ma riprendiamo l’analisi di “Un bilancio del Postconcilio” con attenzione iniziale ai primi giorni conciliari in cui si fece esperienza della reale cattolicità con la sua speranza pentecostale, cosa non più caratterizzante il “postconcilio 50 anni dopo”. Egli giunge alla critica evoluzione che è seguita al Vaticano II, la sua situazione di crisi, in cui restano certamente gli effetti positivi del Magno Sinodo (v. la sintesi di p. 509).
Essi non impediscono però la costatazione “che il clima nella Chiesa a tratti sia diventato non semplicemente più gelido, ma ormai solo velenoso e aggressivo e che atteggiamenti di parte lacerino la comunità… Vedere i fatti non è pessimismo ma obbiettività” (p. 510). Orbene quali le cause e quale la giusta risposta? E come si è giunti all’evoluzione postconciliare?
La nostra crisi è anzitutto coincisa con quella globale dell’umanità per cui osserviamo, a conferma, che “senza il Concilio la cristianità evangelica ha affrontato una crisi simile” (p. 511). Inoltre l’esame di coscienza conciliare fece giungere all’idea di “una Chiesa fondamentalmente e radicalmente peccatrice… il che portò a un’insicurezza riguardo alla propria identità, mentre dovremmo sapere che il pentimento cristiano non significa negazione di se stessi, bensì ritrovarci” (p. 513).
“Ora è necessario – conclude Ratzinger – che si risvegli nuovamente la gioia per l’ininterrotta realtà in essa della comunità di fede che proviene da Gesù Cristo” (p. 514). Che cosa bisogna dunque fare? Ratzinger si limita a due aspetti importanti, e cioè anzitutto la corretta collocazione e valutazione dei Concili che portano a considerarli “di tanto in tanto come una necessità”, ma che rappresentano sempre una situazione eccezionale nella Chiesa e non possono essere considerati in generale come il modello della sua vita, o addirittura come il contenuto ideale della sua esistenza. I concili sono una medicina, non un nutrimento (p. 516).
Il secondo aspetto poi è la “questione [fondamentale] della giusta recezione del Vaticano II” che per il prof. Ratzinger, nel 1975, non era ancora iniziata. Per semplificare egli fa riferimento a due motivi di fondo del Concilio. Il primo è la collegialità, il procedere insieme, istituendo consessi (v. p. 517). L’idea di fondo è giusta, ma “la loro moltiplicazione incontrollata ha condotto a un eccesso di duplicazioni, a una insensata proliferazione di carte e a un girare a vuoto nel quale le forze migliori si consumano in discussioni infinite che in realtà nessuno vuole ma che, sulla base delle nuove forme, sembrano divenute ineludibili”.
“[Però] È divenuto evidente che se da un lato c’è la collegialità, dall’altro ci sono la responsabilità personale e l’intuizione personale che non possono essere sostituite né soffocate” (p. 518). Il secondo motivo, poi, è quello della semplicità, uno dei termini fondamentali della Costituzione sulla Liturgia. A questo riguardo l’A. ricorda che “l’uomo non comprende solo con la ragione, ma anche con i sensi e con il cuore e che la potatura va distinta dal taglio” (p. 519), ed inoltre “quando la fede si ribalta in un messianismo terreno si tradisce il cristianesimo e si tradisce l’uomo”.
“Dall’altra parte vediamo oggi sorgere un nuovo integralismo che solo apparentemente preserva quel che è rigorosamente cattolico, ma in realtà lo distrugge dalle fondamenta” (p. 520). Alla fin fine “il giudizio definitivo sul valore storico del Concilio Vaticano II dipende dal fatto che degli uomini siano in grado di sopportare in se stessi il dramma della divisione di grano e zizzania, conferendo in tal modo a tutto l’insieme quella chiarezza che esso non può acquisire solo sulla base delle parole (p. 521). “L’ultima parola sul valore storico del Vaticano II, nonostante tutto il buono che si trova nei suoi testi, ancora non è stata detta. Se alla fine potrà essere annoverato fra i punti luminosi della storia della Chiesa dipende dagli uomini che tramutano la parola in vita” (p. 522).
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Altro punto di coagulo del volume si rivela nel successivo “Un programma: ‘Communio’” [la rivista], di cui appare il primo numero al principio del 1972 (pp. 555-570). A leggere oggi queste pagine (di Hans Urs von Balthasar), dopo vent’anni, si resta stupiti della loro intatta attualità: quanto lì viene detto mantiene tutta la sua forza anche nell’odierno panorama teologico per cui Ratzinger ne rinfresca la memoria a tutti noi. Mi permetto di citare soltanto alcune forti espressioni ratzingheriane, le seguenti: “Le prime risultano essere una risposta a quanti pensano che il Vaticano II, con il concetto di ‘popolo di Dio’, ha eliminato l’ecclesiologia gerarchica del Vaticano I sostituendola con una di communio". Orbene una simile ermeneutica del Magno Sinodo la può concepire unicamente chi si rifiuta di leggerne i testi, oppure chi li ripartisce fra testi progressisti accettabili e inaccettabili testi démodés. Infatti, nel documento del Concilio sulla Chiesa, il Vaticano I e II sono indissolubilmente collegati l’uno all’altro; non si può parlare di sostituzione di un’ecclesiologia anteriore errata grazie a un’ecclesiologia diversa e nuova… La Chiesa non ha il diritto di cambiare la fede e di pretendere nel contempo che i fedeli le restino a fianco.
I Concili non possono quindi inventare o sconfessare ecclesiologie o altre dottrine. Giacché la Chiesa, come dice il Vaticano II, non sta sopra la Parola di Dio, ma la serve e insegna, quindi, soltanto ciò che è tramandato. L’intelligenza della Tradizione cresce, tuttavia, in ampiezza e profondità, perché lo Spirito Santo amplia e approfondisce la memoria della Chiesa, per “introdurla a tutta la verità” (Gv 16,13).
Questa crescita nella “percezione” (perceptio) di quanto è custodito nella Tradizione avviene, secondo il Concilio, mediante la riforma e lo studio dei credenti; mediante interiore intelligenza derivante dall’esperienza spirituale; e mediante l’annuncio di coloro “che con la successione apostolica hanno ricevuto il sicuro carisma della verità” (p. 563). Allora “se il Concilio Vaticano II ha posto al centro il concetto di communio, non l’ha fatto per creare un’altra ecclesiologia o addirittura un’altra Chiesa, ma perché lo studio e l’intelligenza spirituale dei fedeli proveniente dall’esperienza rendono possibile esprimere la Tradizione in questo o quel punto in modo più completo e comprensivo” (p. 564).
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Prima della Parte G di questo volume dell’“Opera Omnia”, composta di “Recensioni e Prefazioni”, in cui segnalo con pietra bianca quella sul volume di Leo Scheffczyk dal titolo “La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Concilio Vaticano II” (pp. 615-618), – dove si esprime la posizione ermeneutica con la quale mi identifico di più (v. Agostino Marchetto, “Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II”).
A proposito di un recente volume (di Leo Scheffczyk) in “Chiesa e Papato, nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici”, L.E.V., 2002, pp. 325-330) –, troviamo, dicevo, un omaggio al Card. Koenig, per il suo novantesimo genetliaco, intitolato “La responsabilità della Chiesa e il mondo in questo tempo” (è un’Omelia sul “Cristocentrismo del Concilio Vaticano II” o dell’attualità del Cristianesimo, con bellissimo “apologo” finale) e “L’Appello alla giustizia”, pure del genere omiletico, sull’eredità della “Gaudium et Spes” quarant’anni dopo.