un libro
La modernità vuole una cultura indipendente dalla verità. Un inedito di Benedetto XVI
“Il moderno stato occidentale si considera un grande potere di tolleranza che rompe con le tradizioni stolte e prerazionali di tutte le religioni. È la pretesa di avere sempre ragione”. Dal volume postumo che raccoglie le riflessioni dopo la rinuncia di B-XVI
Pubblichiamo uno stralcio tratto da “Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale”, il libro postumo di Benedetto XVI edito da Mondadori (204 pp., 20 euro) che sarà in libreria da venerdì. Il volume raccoglie le riflessioni di Joseph Ratzinger successive alla rinuncia del febbraio 2013.
Dopo essersi confrontato una prima volta con il rapporto fra monoteismo e intolleranza, rimanendo sostanzialmente in superficie, Eckhard Nordhofen ha trattato diffusamene la questione nella sua ampia monografia Corpora. Die anarchische Kraft des Monotheismus. Ebbi tuttavia l’impressione che l’aspetto puramente storico possa essere ulteriormente approfondito. Così è nato questo saggio, nel quale cerco di far intravedere la complessità di ciò che è avvenuto. Penso che emerga da sé ciò che dal lontano passato ha riflessi anche sul presente e quindi non debba essere trattato in maniera analitica.
Questo vale soprattutto per l’ultimo paragrafo, nel quale, a uno sguardo superficiale, la grande potenza della cultura e della religione ellenistica – intesa come moderna forza di tolleranza – s’imbatte nel fenomeno marginale e irriducibilmente intollerante di un gruppo ostile a una visione illuminata, il giudaismo, e per questo diventa a sua volta intollerante. Dalla prospettiva odierna è tuttavia possibile anche un’altra valutazione della situazione di allora: noi cristiani, che in modo deciso consideriamo la forma essenziale della nostra fede come germogliata dal giudaismo, ci ritroviamo vittime precisamente di una crescente intolleranza esercitata proprio in nome della tolleranza.
In questo mio saggio ho volutamente rinunciato a parlare dell’attualità del passato; rimetto questo compito alla riflessione del lettore. La complessità del processo comincia comunque molto presto. Nel famoso episodio del vitello d’oro (Es 32), per esempio, non si tratta semplicemente della professione dell’unicità di Dio, ma del rapporto di fedeltà di Israele al suo Dio che è venuto meno a causa della riduzione di Dio a una statua. Qui non viene difesa la verità dell’unicità di Dio, ma viene condannata l’infedeltà di Israele, il quale, attraverso l’alleanza, era entrato in un rapporto di fedeltà di tipo particolare con questo Dio.
Confrontarsi con i Libri di Giosuè, dei Giudici e dei Re sulla rispettiva comprensione di “monoteismo” ci porterebbe troppo lontano. Vorrei perciò analizzare brevemente solo il testo di Gs 24,15-28, perché vi si trova una presentazione del rapporto di Israele con il suo Dio che è decisiva per tutto il prosieguo. Israele accetta in libertà l’alleanza esclusiva con Dio quando gli viene esplicitamente data la possibilità di rifiutarla e di essere così sciolto dagli obblighi verso di lui insiti nell’alleanza. Questo legame esclusivo a Jahvè, e l’esclusione di tutti gli altri dei che ne deriva, come anche la lotta contro di essi, non è presentato come conseguenza di un astratto monoteismo, ma risulta unicamente dal concreto rapporto di alleanza con quel Dio che per Israele è l’unico Dio e che in effetti può rivendicare esclusivamente per sé una terra che sembrava appartenere ad altri dei. Bisogna peraltro aggiungere che, in un altro passo della storia sacra, l’intolleranza verso i popoli che in precedenza avevano abitato la terra promessa appare motivata diversamente.
Lì è detto che tali popoli avevano talmente inquinato quei territori con gli abomini voluti dalle loro divinità – in particolar modo con i sacrifici umani – da non avere più alcun diritto su quella terra; ed è detto che Jahvè aveva dato quella terra a Israele affinché il suo popolo vi potesse vivere secondo la sua legge, restituendo a quella terra la sua dignità. Di fatto, in quella terra erano rimaste parti rilevanti della popolazione precedente e questo ebbe come conseguenza che Israele non vivesse pienamente secondo la volontà di Dio, insegnando anche agli altri popoli a vivere rettamente. Accadde invece il contrario: Israele si allontanò dalla forma di vita che gli era stata data e si conformò allo stile di vita di quei popoli. Anche in questo caso, peraltro, a determinare “l’intolleranza” verso gli altri popoli non è affatto un astratto monoteismo, bensì un legame fra morale e fede, che silenziosamente chiama anche la ragione a rendere testimonianza della giustezza dell’agire di Dio.
Si possono trovare punti di vista essenziali sulla questione del rapporto fra monoteismo e tolleranza anche nella storia di Salomone e delle donne per amore delle quali egli fece erigere santuari alle loro divinità. Salomone appare, da un lato, come il sovrano ideale, come il maestro di saggezza che per mezzo dei libri sapienziali continua a parlare al suo popolo e più in generale all’umanità. Ma, dall’altro lato, il successo lo aveva sedotto conducendolo a uno stile di vita sfrenato – del quale fa parte un grande harem –, che include anche l’edificazione di santuari del mondo pagano. Seguendo criteri moderni, si potrebbe dire che Salomone fu un re illuminato che concesse spazio alle varie religioni, consentendo in tal modo la loro reciproca tolleranza.
La storiografia ufficiale di Israele prende nei suoi confronti una posizione contrastante. Per un verso Salomone viene presentato come il re grande e saggio al quale furono concessi quarant’anni di regno. Ma allo stesso tempo è proprio durante il suo regno che inizia la successiva divisione fra Israele e Giuda, e la sua tolleranza religiosa è deplorata come abbandono della sapienza e come caduta nell’estrema stoltezza del culto idolatrico. La storia di santo Stefano, nel Nuovo Testamento, mostra come lo sfarzoso tempio, che Salomone eresse al posto della tenda sacra, intimamente rappresenti il passaggio a una falsa pietà, perché il vero Dio non abita in costruzioni di pietra, ma rimane il Dio in cammino. Le cose stanno in modo completamente diverso nel regno di Acab. Per amore della moglie pagana, Gezabele, egli concede alle divinità di lei tutto lo spazio che ella vuole; proprio per questo egli appare come il prototipo del cattivo sovrano, anche se dalle vicende narrate si evince come, nei limiti di quanto era allora possibile fare e ci si poteva attendere, egli sia stato un buon sovrano per il suo popolo: ferito mortalmente nella guerra contro la Siria, per la sua morte si osserva il lutto in Israele.
Lo scontro drammatico fra il monoteismo, la fede nell’unico Dio, e la falsità dell’idolatria ha luogo nel contrasto fra Elia e Gezabele. La politica di Gezabele ha avuto come conseguenza che Elia sia rimasto il solo profeta dell’unico Dio, del Dio del Sinai, al quale si contrappongono 450 profeti di Baal. Il giudizio di Dio, riconosciuto da ambo le parti, viene messo in atto da Elia con l’uccisione di tutti i profeti di Baal. La vittoria di fatto così conseguita dal monoteismo sembrava porre Elia dalla parte del giusto, ma gli effettivi rapporti di forza costringono Elia, minacciato nell’anima e nel corpo, a fuggire. Egli compie a ritroso il cammino verso il monte di Dio, il Sinai, per ricevere lì nuove istruzioni. Resta controversa l’interpretazione secondo la quale l’incontro con Dio a lui concesso debba intendersi come una condanna della violenza utilizzata nella lotta contro le divinità. Dio non è nel fuoco e non è nella tempesta; la sua presenza si percepisce nel sussurro di una brezza leggera. Circa trecento anni dopo, all’inizio dell’attività del Deutero Isaia, incontriamo nuovamente la voce misteriosa che annuncia la fine dell’esilio, la liberazione di Israele. Un mezzo millennio più tardi la udiamo di nuovo, e ora è diventata la voce di un uomo, Giovanni Battista, nel quale si compie anche il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento.
Nella progressiva concretizzazione del significato della voce, diviene così evidente quello che in ultima analisi significa la rivelazione a Elia sul Sinai: Dio non vince nella violenza, così come l’aveva esercitata Elia, ma nel Servo di Dio sofferente nel quale Dio stesso interviene nella storia. Anche se la questione dell’originario significato da dare alla teofania a Elia resta aperta, il suo ripresentarsi in Isaia e in Giovanni Battista ci consente comunque di poter affermare che in essa si annuncia una definizione misteriosa e nuova per la questione della potenza e dell’impotenza di Dio nel mondo. Elia stesso, tuttavia, anche se non ha proseguito la politica della violenza, sembra non aver compreso questa risposta. La politica di violenza viene, invece, continuata nel regno di Ieu, con un regime estremamente sanguinario che porta al massacro dell’intera casa di Acab.
Ieu affermò, peraltro, che così egli seguiva l’indicazione di Elia. La Sacra Scrittura non dice se Elia seppe di quel regime violento e se eventualmente si espresse in proposito. In ogni caso è evidente che il dominio sanguinario di Ieu, nonostante il suo richiamo al compito datogli da Elia, non ha più nulla a che vedere con il monoteismo, con l’alternativa fra l’unico Dio e i molti Baal, ma riguarda esclusivamente una lotta di potere in Israele. Cerchiamo però di analizzare meglio i singoli passaggi della narrazione. La terrificante carneficina di Elia è da intendersi come risposta alla questione del Dio vivente. La strage viene compiuta da Elia nel silenzio dei Baal e nella poderosa risposta del suo Dio. Non va, dunque, interpretata come vittoria del monoteismo sul politeismo. Nella situazione data, essa si configura invece come la risposta concreta alla minaccia a cui è sottoposta la fede che Israele ha ricevuto dai suoi padri.
La fede dei padri viene difesa contro l’arroganza della regina Gezabele, che vorrebbe dare spazio unicamente alle sue divinità. Gezabele, l’altra protagonista del dramma del Carmelo, ha portato con sé i suoi dei e vede in essi incarnato il suo potere. A lei si rimprovera soprattutto di trattare la fede di Israele, rappresentata da Nabot, con il cinismo del potere. Nabot vede nella vigna ereditata dai suoi padri il dono della terra che il Dio d’Israele ha promesso al suo popolo e che è per lui concretamente rappresentata da quella vigna. La vigna è per lui la sua partecipazione alla promessa, il dono della terra ricevuto dai suoi padri e da lui ereditato. La generosa offerta di Acab di dargli in cambio una vigna di uguale o maggior valore per lui non conta: per lui conta l’eredità dei padri.
A questa fede Gezabele contrappone l’arroganza del potere, che considera anche la diffamazione come un mezzo ovvio. L’autore anticotestamentario vede in questo l’essenza della religione di Baal e vede qui espresso il contrasto di fondo con la fede nel Dio dei padri. I culti di Baal sono culti di fertilità, nei quali la frontiera fra Dio e uomo si dissolve: in una sregolatezza senza pari, il divino viene trascinato verso il basso e ne viene deformata la dignità. In questo senso i culti di Baal si rivelano essere l’autentica ragione della distruzione morale dei popoli, dalla quale il paese deve essere liberato.
Su questa base è quindi possibile comprendere il senso del primo comandamento del Decalogo, che è considerato con tutta chiarezza l’autentica, essenziale richiesta di fondo della legge divina, che i successivi comandamenti non fanno che esplicitare in concreto: l’unico Dio sta al di sopra di tutte le realtà umane. Nella pura trascendenza che gli è propria, egli è al contempo garanzia della dignità dell’uomo. La lotta per il Dio vivente contro Baal è una lotta per la giustizia dell’uomo, che si esprime concretamente dal quarto al decimo comandamento. Resta ancora aperta qui la questione della tolleranza o intolleranza della religione. In questo senso, a me sembra che dall’azione di Elia sul monte Carmelo non possa trarsi alcuna conclusione decisiva riguardo alla questione della tolleranza o intolleranza del monoteismo. Il viaggio al monte Sinai, infatti, apre già una nuova concezione, che peraltro si svilupperà e si affermerà solo in seguito. Cerchiamo ora di determinare più precisamente il rapporto fra la fede in Dio di Israele e la religione di Baal.
La caratteristica decisiva per la fede di Israele è il fatto che solo un Dio sta di fronte al popolo di Israele e a tutti gli altri popoli della terra. Il suo rapporto con il mondo nel suo complesso può essere definito come trascendenza. Per le religioni della fertilità, con i loro Baal, al contrario, l’importante è che non ci sia alcuna frontiera invalicabile fra il mondo del divino e gli uomini. Anzi, l’essenza della religione non consiste, come per Israele, nell’obbedienza degli uomini al Dio trascendente, ma proprio nell’intreccio delle cose umane con quelle divine. Al centro della religione il grande mistero della fertilità, che nelle religioni è assaporato e vissuto nella sua magnificenza come anche nella sua forza distruttiva. Poiché in virtù del Dio d’Israele i riti di mescolanza fra divino e umano sono considerati come arroganza e in ultima analisi come distruzione del mondo e dell’uomo, Israele deve rifiutare tutto questo. Un po’ schematicamente potremmo dunque affermare che i culti di fertilità sono una religione identitaria, mentre potremmo definire l’adorazione del Dio trascendente come una religione dell’obbedienza.
Il contenuto dell’obbedienza consiste, come abbiamo visto, nel Decalogo – che in un certo senso può essere considerato come l’autentica rappresentazione di Dio. Mettendolo in pratica, l’uomo diviene immagine di Dio e a lui simile. Uno sguardo al Libro di Amos consente un ulteriore chiarimento. Mi sembra importante innanzitutto il modo in cui Amos si presenta al re. Amasia, il sacerdote di Betel, il santuario centrale del regno del nord, dice ad Amos: “Vattene…, ritìrati verso il Paese di Giuda…; a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno” (Am 7,12s).
È parimenti importante la risposta di Amos: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori” (Am 7,14). Ciò significa l’indipendenza del messaggio di Dio dalla politica e significa la libertà del profeta di fronte al potere politico. Nel caso specifico significa ancora di più. È, infatti, peculiare della concreta situazione di Israele in quel tempo la contrapposizione fra popolazione rurale e sviluppo economico urbano, con la crescente ricchezza delle città e il potere delle sue strutture sociali, che porta quasi inevitabilmente la popolazione delle campagne all’impoverimento.
Così, nel caso specifico, Amos è divenuto paladino dell’uguaglianza sociale e della giustizia. Il messaggio di Dio, così come non dipende da alcuna autorità umana, significa anche impegno per la giustizia nei confronti di tutti. Analizzando il Pentateuco e i libri storici di Israele emerge poi un terzo elemento: la sollecitudine per le vedove, per gli orfani e per gli stranieri. Costoro sono particolarmente amati e protetti da Dio. Va inoltre considerato ancora un altro aspetto. Il Libro di Amos inizia con una serie di minacce di castighi contro i popoli, ai quali sono drammaticamente annunciate sciagure per i misfatti da loro compiuti. Le minacce di castighi contro altri popoli sono comuni anche al di fuori di Israele. La novità, con cui il profeta capovolge addirittura lo schema usuale, consiste nel fatto che qui il giudizio di Dio culmina con il giudizio contro il proprio popolo.
Lo scopo dell’agire di Dio è alla fin fine la salvezza di tutti i popoli: l’universalità che qui si annuncia può ritenersi come motivo fondamentale dell’agire di Dio nell’Antico Testamento. È chiaro in ogni caso che non è lecito considerare il monoteismo come un’etichetta che si possa applicare a situazioni storiche differenti e che si possa collegare a concetti propri del nostro tempo quali tolleranza o intolleranza. Gettiamo infine uno sguardo sul tempo dell’esilio e sui Maccabei. È soltanto nel tempo dell’esilio che il monoteismo si sviluppa compiutamente in Israele. Sino a quel momento era certo chiaro che Israele aveva un solo Dio e che tutti gli altri dei erano idoli. Ma se esistevano e come erano da collocare ontologicamente erano questioni rimaste fuori dall’ambito degli interessi di Israele.
Ora però Israele era stato derubato della sua terra e questo normalmente portava alla fine della divinità di un paese o di un popolo. Un dio che non era stato in grado di difendere il suo popolo e la sua terra non poteva essere un dio. In Israele, al contrario, si compie il movimento di pensiero opposto. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio del Sinai, dispone di tutta la terra. Poteva mandare il suo popolo in Egitto per secoli, poteva strapparlo dalla violenza del faraone e poteva condurlo attraverso il deserto fino alla terra promessa; e pure là poteva far sì che fosse sconfitto ed esiliato a Babilonia. Egli non era il Dio di un determinato paese e nemmeno solo il Dio di quel determinato popolo.
Nel tempo dell’esilio diviene centrale il concetto di creazione. Dio è il creatore del cielo e della terra. Egli solo ha creato il mondo dal nulla. Egli solo è veramente Dio. La fede di Israele ci mette di fronte a questo paradosso, cioè che il solo e unico Dio sopra tutti gli dei si è scelto Israele, traendolo a sé con il suo amore, senza esservi vincolato in alcun modo. Non ha bisogno di alcun santuario perché gli appartiene tutta la terra. È magnifico, come dice il salmista, che tutta la terra sia solo una piccola cosa che egli tiene nelle sue mani. Dio può utilizzare i potenti della terra per i suoi scopi e scegliere come suo servo Ciro, che rimanda Israele nella sua terra.
È chiaro che in questa situazione Israele non poteva pensare di rivendicare con l’intolleranza politica questo Dio per sé. Nella condizione dell’esilio, Israele può solo mettersi fiduciosamente nelle mani di Dio. Egli solo ha potere su tutta la realtà. Questo però significa pure che, nella disputa con i popoli, ora Israele si appella anche alla ragione comune: il Dio di cui parla non è comprensibile solo nella fede di Israele. È evidente che i culti politeistici non si concepiscono come fondati razionalmente, mentre l’unico Dio, nel quale Israele crede e che adora, vuole essere verificato e compreso anche in una visione razionale del mondo.
L’irrisione degli dei, che hanno orecchie e non sentono, che hanno occhi e non vedono, per un certo verso può essere considerata grossolana; e tuttavia esprime proprio questo nuovo passo che è stato compiuto con l’orientamento verso il pieno monoteismo. Era in tal modo preparato l’incontro con il pensiero greco, per il quale si offriva come strumento la Septuaginta, e che viene poi esplicitamente ripreso nella tarda letteratura sapienziale. In questo modo era preparato anche l’incontro, compiutosi definitivamente nel cristianesimo, tra pensiero filosofico e fede di Israele. Il pensiero di Socrate, pio e critico nello stesso tempo, a suo modo ha avuto l’effetto di svelare l’illusorietà degli dei. Oggi ci troviamo di fronte al movimento opposto dello spirito umano.
Il pensiero moderno non vuole più riconoscere la verità dell’essere, ma vuole acquisire potere sull’essere. Vuole riplasmare il mondo secondo i propri bisogni e desideri. Con questo orientamento non alla verità ma al potere si tocca senza dubbio il vero problema del tempo presente su cui alla fine dovremo tornare. Gettiamo ancora uno sguardo ai Maccabei. Dalle vittorie di Alessandro Magno era scaturito un grande spazio culturale greco, che nei regni dei Diadochi acquisì forma culturale e politica. Le forme di vita tradizionali, che ostacolavano l’unità che andava costituendosi, dovevano essere abolite a favore di quella cultura unitaria che teneva tutto insieme. Era chiaro, perciò, che dovevano sparire, tra le altre, anche le forme di vita giudaiche prescritte dal Pentateuco (la circoncisione, le prescrizioni riguardanti il cibo, ecc.) perché non compatibili con il moderno Stato unitario; così come non erano compatibili con il nuovo modello culturale unificato la fede, lo stile di vita di Israele e la sua lingua.
Una parte non trascurabile degli israeliti evidentemente accolse con gioia la fusione con il moderno stile di vita illuminato dell’ellenismo, altri lo rifuggirono in mancanza di alternative. Ma tanto la fede di Israele quanto le forme di vita, di cui faceva parte anche la lingua, prima o poi dovevano inevitabilmente reagire. Il Primo libro dei Maccabei descrive in modo efficace come Mattatia, uomo autorevole e stimato, si ribellò contro quelle pretese, rifiutò le promesse della nuova società e si oppose all’ambasciatore del re. Resistette alle grandi promesse di ricchezza che gli venivano fatte, tanto quanto alla richiesta di offrire sacrifici agli idoli, dicendo: “Anche se tutti i popoli nei domini del re lo ascolteranno e ognuno si staccherà dal culto dei suoi padri…, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell’alleanza dei nostri padri … Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra” (1 Mac 2,19ss). Quando, terminate queste parole, un giudeo si apprestava a sacrificare sull’altare pagano secondo l’invito del re, Mattatia, vedendo ciò, “arse di zelo… Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull’altare; uccise nel medesimo tempo il messaggero del re” (1 Mac 2,24s).
Il Libro dei Maccabei giustifica questo gesto come recupero dello “zelo” di cui aveva parlato il Libro dei Numeri raccontando l’azione di Pincas. Lo “zelo” assurge ora a categoria fondamentale della rivolta contro la civiltà unitaria ellenistica: Mattatia fuggì sulle montagne e molti lo seguirono. Il movimento maccabeo così sorto poté opporsi al potere militare dello Stato e istituire un nuovo Stato di Israele fondato sulla fede, nel quale venne istituito nuovamente anche il Tempio di Gerusalemme. Il movimento maccabeo si fonda sulla decisa fedeltà di Israele alla propria identità. Questa fedeltà non è intesa affatto come rigido attaccamento ad antiche tradizioni ormai superate. Dal momento che il Dio d’Israele è il vero Dio riconoscibile anche razionalmente, la fedeltà alle sue leggi è fedeltà alla verità. Non si coglie certo lo spirito di questo movimento affibbiandogli l’etichetta di intolleranza monoteistica. Si fronteggiano piuttosto l’intolleranza del moderno Stato (insieme all’unica forma di vita che esso ritiene valida) e la fedeltà alla fede dei padri (insieme allo stile di vita che gli è proprio). Qui s’impone uno sguardo sul presente.
Il moderno Stato del mondo occidentale, difatti, da un lato si considera come un grande potere di tolleranza che rompe con le tradizioni stolte e prerazionali di tutte le religioni. Inoltre, con la sua radicale manipolazione dell’uomo e lo stravolgimento dei sessi attraverso l’ideologia gender, si contrappone in modo particolare al cristianesimo. Questa pretesa dittatoriale di aver sempre ragione da parte di un’apparente razionalità esige l’abbandono dell’antropologia cristiana e dello stile di vita che ne consegue, giudicato prerazionale.
L’intolleranza di questa apparente modernità nei confronti della fede cristiana ancora non si è trasformata in aperta persecuzione e tuttavia si presenta in modo sempre più autoritario, mirando a raggiungere, con una legislazione corrispondente, l’estinzione di ciò che è essenzialmente cristiano. L’atteggiamento di Mattatia – “Noi non ascolteremo gli ordini del re” (la moderna legislazione) – è quello dei cristiani. Lo “zelo” di Mattatia, invece, non è la forma in cui si esprime lo zelo cristiano. Lo “zelo” autentico prende la sua forma essenziale dalla croce di Gesù Cristo. Cerchiamo di trarre, infine, una sorta di conclusione da questa veloce rassegna di alcune tappe della storia della fede nell’unico Dio dell’Antico Testamento. Innanzitutto possiamo senz’altro affermare che storicamente il monoteismo si presenta in modi molto diversi.
Non lo si può dunque univocamente definire seguendo gli stessi criteri moderni come un fenomeno unitario. Si giunge al monoteismo, nel senso stretto del termine secondo il suo uso moderno, solo quando esso si collega alla questione della verità. Questo passaggio in Israele avviene fondamentalmente a partire dall’esilio, anche se non nel vero e proprio senso di riflessione filosofica. L’evento rivoluzionario, dal punto di vista della storia delle religioni, avviene con l’assunzione cristiana della fede nell’unico Dio, che in tutto il bacino del Mediterraneo era stata preparata dal gruppo dei “timorati di Dio”.
L’affermazione definitiva della pretesa universale dell’unico Dio era peraltro ancora ostacolata dal fatto che quest’unico Dio si era legato a Israele e che dunque era pienamente accessibile solo in Israele; i pagani lo potevano adorare insieme a Israele, ma non potevano appartenergli completamente. Solo la fede cristiana, con la sua universalità definitivamente conquistata da Paolo, permetteva ora che l’unico Dio potesse anche concretamente essere adorato nel Dio d’Israele che si rivelava. L’incontro tra il “Dio dei filosofi” e il Dio concreto della religione ebraica è l’evento, operato dalla missione cristiana, che rivoluziona la storia universale. In ultima analisi il successo di questa missione si basa proprio su tale incontro.
Così la fede cristiana poté presentarsi nella storia come la religio vera. La pretesa di universalità del cristianesimo si basa sull’apertura della religione alla filosofia. È così che si spiega perché, nella missione sviluppatasi nell’antichità cristiana, il cristianesimo non si concepì come una religione, ma in primo luogo come prosecuzione del pensiero filosofico, vale a dire della ricerca della verità da parte dell’uomo. Questo purtroppo, nell’epoca moderna, lo si è sempre più dimenticato. La religione cristiana viene ora considerata come prosecuzione delle religioni del mondo e ritenuta essa stessa come una religione fra o sopra le altre. Così i “semi del Logos”, di cui parla Clemente alessandrino come tensione a Cristo della storia precristiana, sono genericamente identificati con le religioni, mentre lo stesso Clemente alessandrino li considera parte del processo del pensiero filosofico nel quale il pensiero umano procede a tentoni verso Cristo.
Torniamo alla questione della tolleranza. Quanto detto significa che il cristianesimo comprende se stesso essenzialmente come verità e su questo fonda la sua pretesa di universalità. Ma proprio qui s’inserisce l’attuale critica al cristianesimo, la quale considera la pretesa di verità come intollerante in sé. Verità e tolleranza sembrano essere in contraddizione. L’intolleranza del cristianesimo sarebbe intimamente legata alla sua pretesa di verità. Alla base di questa concezione sta il sospetto che la verità sarebbe in sé pericolosa. Per questo la tendenza di fondo della modernità muove sempre più chiaramente verso una forma di cultura indipendente dalla verità.
Nella cultura postmoderna – che fa dell’uomo il creatore di se stesso e contesta il dato originario della creazione – si manifesta una volontà di ricreare il mondo contro la sua verità. Abbiamo già visto in precedenza come proprio questo atteggiamento conduca necessariamente all’intolleranza. Ma per quel che attiene al rapporto fra verità e tolleranza, la tolleranza è ancorata alla natura stessa della verità. Riferendoci alla rivolta dei Maccabei, abbiamo visto come una società che si pone contro la verità sia totalitaria e perciò profondamente intollerante.
Per quel che riguarda la verità, vorrei semplicemente rinviare a Origene: “Cristo non consegue alcuna vittoria su chi non voglia. Egli vince solo con la persuasione. Non per niente è il verbo di Dio”. Ma alla fine, come autentico contrappeso a ogni forma di intolleranza, sta Gesù Cristo crocifisso. La vittoria della fede si può realizzare sempre solo nella comunione con Gesù Crocifisso. La teologia della croce è la risposta cristiana alla questione della libertà e della violenza; e di fatto, anche storicamente, il cristianesimo ha conquistato le sue vittorie solo grazie ai perseguitati e mai quando si è messo dalla parte dei persecutori.
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